Ma voi ci credete davvero a una “Repubblica” liberal?

Ma voi ci credete davvero a una “Repubblica” liberal?

Quando accadono cambiamenti così repentini da interrogarsi seriamente sulla loro loro origine – tipo che ieri tifavi Inter e oggi la tua squadra del cuore è la Juve – prima di prenotare una visita dallo psicanalista è utile fare un passo indietro e cercare nei ricordi più cari il seme di quella rivoluzione, o almeno tentare un’indagine indiziaria che possa in qualche modo restituire una parvenza di credibilità a quello scarto improvviso del destino.

Stiamo naturalmente parlando di Repubblica, il cui direttore scientifico Ezio Mauro ha apportato una modifica sostanziale alla mappa cromosomica: da giornale lungamente giustizialista (almeno il tempo di Berlusconi) a quotidiano liberal. Liberal senza la «e», naturalmente, nell’accezione più nobile e virtuosa, giacchè ai liberali nostrani è meglio non rifarsi (i migliori sono già morti, i contemporanei non brillano). La trasformazione è avvenuta nel tempo rapido, rapidissimo, di una polemica alta e nobile come sono ruolo e figura di Giorgio Napolitano, la cui onorabilità è stata messa a dura prova dalla Procura di Palermo con quelle «maledette» intercettazioni. In totale buona fede o meno, ora, qui, è aspetto che non ci interessa. Quel che ci interessa, da un punto di vista scientifico, è capire i motivi di questa sterzata editoriale e, soprattutto, se sia evidentemente giustificata dagli eventi.

Si diceva dei ricordi che in certi frangenti possono sostenere lo sbandamento legittimo. Uno, anche relativamente recente, su tutti: l’abbandono di Barbara Spinelli alla Stampa. Non per stanchezza mentale, necessità di aria nuova, voglia di cambiamento purchessia. No. Barbara Spinelli un bel giorno decide di lasciare il quotidiano torinese, di cui era parte fondamentale, perché, secondo lei, la linea del giornale non è sufficientemente aggressiva con Berlusconi. Siamo in pieno bailamme puttaniero e la Spinelli ritiene che una forma morale più alta e ferma debba essere esercitata sulle immonde abitudini del Cavaliere. Non basta che si pubblichino tutte le notizie del caso, non basta che la direzione le dia ovviamente carta bianchissima per scrivere ciò che vuole, non è sufficiente che il respiro di quel quotidiano sia lontano anni luce da quei comportamenti. No, tutto questo non basta.

Dove va, Barbara Spinelli, per sentirsi in totale serenità da questo punto di vista? A Repubblica. Repubblica in quel tempo è in battaglia. E i colpi, come possono ben ricordare lettori e appassionati, non sono esattamente da disfida liberal. Sono fendenti bestiali, come peraltro si conviene a un avversario (nemico?) così potente e protervo. La mezza porzione non è contemplata, l’obiettivo finale è talmente straordinario – eticamente straordinario – che tutti quelli che mostrano perplessità sui modi un po’ spicci e po’ rozzi del quotidiano di Largo Fochetti, sono valutate come persone che non hanno a cuore le sorti del Paese.

Il punto è esattamente questo. La grande impresa di Ezio Mauro è stata infatti di ordine morale, prima ancora che di carattere giornalistico. Il direttore è riuscito a imprimere, con la sola forza editoriale, una svolta epocale nei rapporti tra giornale e lettori e tra giornale e giornali concorrenti. Con i lettori ha stabilito un patto d’acciaio sulle finalità del progetto, ricevendone una cambiale totalmente in bianco, con i giornali concorrenti ha spostato il tiro sulla questione etica, facendo leva sul senso di colpa più collettivo: in presenza di un disordine morale e politico di queste dimensioni – questa era sostanzialmente la sua domanda agli altri direttori – come potete starne fuori senza provare un profondo imbarazzo?

In buona sostanza, Mauro attribuiva al suo procedere giornalistico una funzione salvifica. E le vendite in edicola non gli davano torto. Quando non sono più gli elementi puramente giornalistici a determinare i processi di un giornale, ma il senso di una battaglia investe anche caratteri più epici, come la sfida del Prode Condottiero al Male, capirete che le misurazioni del pensiero sull’onda del «giustizialista sì, giustizialista no» hanno francamente poco senso. Repubblica ha fatto del giustizialismo moderno (quello contro Berlusconi) una forma d’arte purissima, lo ha sublimato, elevandolo a forma di riscatto sociale. Probabilmente ne ha anche depositato il marchio in qualche parte del mondo.

Diventare liberal dopo tutto questo, e sulla scia di una polemica pur straordinaria che investe il nostro Capo dello Stato, è un’operazione che può essere intrapresa soltanto in laboratorio. Non vi è attitudine, nè sentimento. Non ci sono le premesse, nè germogli qua e là spuntati inaspettatamente. C’è solo una posizione di comodo, perché altre forme (straordinarie) di giustizialismo nel frattempo si sono affacciate sul panorama giornalistico. E rubano porzioni di territorio.

Adesso ci (ri)vorrebbe l’Eugenio Scalfari che fondò la prima Repubblica.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter