A Venezia arrivano le religioni e tutti i loro fallimenti

A Venezia arrivano le religioni e tutti i loro fallimenti

Venezia. Ma non sarà che la religioni sono in fondo delle robe per disadattati? Lasciando il cesello per l’accetta, è questa la sostanza dei tre film che più strettamente si occupano del tema: “Paradise: Glaube“ di Ulrich Seidl, “The Master“ di Paul Thomas Anderson (entrambi nella competizione principale, appaiono i due veri papabili per il Leone d’Oro) e “Wadjda“ di Haifaa Al Mansour (nella sezione Orizzonti). Della prima pellicola abbiano già avuto modo di parlare, per il clamore suscitato da alcune scene di Maria, la protagonista, che trova l’orgasmo agitando il crocifisso o che cerca di redimere – rosario in mano – una decina di persone affaccendate in una gang bang al parco, o dalla sequenza iconoclasta con le immagini di Gesù e di Ratzinger tirate giù dal muro da un musulmano furioso.

Il film tuttavia è molto di più: è un’opera disperata e definitiva sulla feroce impossibilità di salvezza, nonostante tutti gli sforzi di questa fondamentalista cattolica che appare quasi autistica nella sua missione di evangelizzazione in compagnia dei suoi sodali con cui forma una “truppa d’assalto della Chiesa“: decisa a convertire la scettica, laicissima, sardonica Austria, è del tutto incapace di far quadrare la propria intimità familiare, di toccare davvero quel che le è più vicino.

“The Master“, il film più atteso di questa mostra, si distacca dalle religioni tradizionali per indagare sulle procedure di creazione e proselitismo delle nuove sette, tipo Scientology (“ma non Scientology“ ha tenuto a chiarire il regista in conferenza stampa). Siamo nell’America degli Anni 50, Freddie Quell (un enorme Joacquin Phoenix) è un reduce della seconda guerra mondiale. La bestialità dei suoi movimenti lo inquadra come un uomo che, al di fuori della brutalità cessata della guerra, è niente. Un outsider, un loser. Il padre morto ubriaco, la madre in manicomio. Freddie fa strani intrugli con liquori e altre sostanze: è la sua maniera per stare del tutto fuori. A suo modo è un alchimista, ma senza ardore di conoscenza. Quelle sue pozioni sono una chiave d’accesso alla vita del benestante, carismatico Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman), che si definisce “medico, fisico, scrittore, filosofo teoretico“ e sta diffodendo il verbo della sua Causa, con cui sostiene di poter guarire malattie e restituire serenità alla gente. Il film è un viaggio nel legame maestro-discepolo (e servo-padrone) fra i due personaggi.

Alla fine diventa scoperta la finzione che sta alle fondamenta delle parole di Dodd, uno che abbindola improvvisando sedute di coscienza, stimoli dei ricordi, una specie di ipnosi. Cose per le quali l’uomo è facilmente sputtanato da chi ha un minimo di cultura per guardare dentro quello spettro opaco di suggestioni, ma che invece sono preziosissime per Freddie, “mio soldatino“ (di nuovo la guerra, come già le truppe cattoliche di “Paradise“). Almeno fino a un certo punto. Perché Freddie alla fine sceglie la libertà (anche se questo passaggio – non del tutto spiegato e fluido nel racconto – resta forse la vera grande pecca del film, che non raggiunge la grandiosità forse irripetibile di “Magnolia“). Freddie sceglie di allontanarsi da Dodd (e senza aver acquisito alcuna coscienza), da quella ossessione spirituale. Quel che invece non riesce all’austriaca Maria, che dopo aver oltraggiato con un frustino il cristo sul muro, reo di non aiutarla, lo abbraccia infine disperata piangendo.

Con “Wadjda“, invece, sotto la lente finisce l’Islam. Anima della ribellione è la ragazzina Wadjda, che nella Arabia Saudita di oggi vive tutta l’oppressione di una cultura religiosa che tiene le donne nascoste in casa o dietro un velo. Lei, che indossa le Converse e ascolta musica rock, invece sogna la libertà, rappresentata da una bicicletta, con cui poter un giorno fare a gara coi maschi. Impara il Corano alla perfezione, ma solo per vincere una competizione scolastica che ha per premio i soldi sufficienti per acquistare la due-ruote. E ci riesce, vince, ma non le danno i soldi, perché la costringono a devolverli alla causa della Palestina. Altro che Palestina, Wadjda sogna la bici!

E la bici le verrà regalata da sua madre, abbandonata dal marito, sola con Wadjda. Wadjda ha una forza e una simpatia contagiose. E il suo agire sovversivo rispetto alla cupezza dei fedeli di Allah, alla loro ottusità, alle loro regole che contengono la violenza della repressione, tutto questo trasmette distintamente un concetto: se non ci fosse la mia religione, sarei davvero felice; e per provare a esserlo, devo andare contro i dogmi della fede in cui sono immersa. Solo così Wadjda può correre via. Libera. Sulla sua bicicletta.

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