A Venezia vince la Corea, ma il vero cinema è la gaffe della giuria

A Venezia vince la Corea, ma il vero cinema è la gaffe della giuria

Sud Corea for ever, avevamo scritto ieri. E alla fine è proprio Kim Ki-duk l’homme qui rit: il maestro di Seul trionfa alla Mostra con “Pieta”.
Detto questo, ora però il superdirettore Barbera (pur estraneo ai fatti) deve rivelarci chi ha scritto la sceneggiatura della premiazione di Venezia 69. Il vero capolavoro festivaliero. E non per le scelte compiute (tutto sommato ragionevoli), ma proprio per l’azione drammatica, così sorprendente: ma dove si è mai visto che una giuria sbagliasse ad assegnare i premi, confondendo il gran premio con il Leone d’argento? E poi, avete mai sentito un Leone d’oro cantare? Che spettacolo.

Massima solidarietà per Letizia Casta perché su una figura di merda di dimensioni metafisiche ha dovuto metterci la faccia (così bella, ha comunque attutito l’urto). Avevano appena attribuito a favore di telecamere il Leone d’argento a Ulrich Seidl per “Paradise: Glaube”, quando la così dolce così perversa Casta si è alzata e col dito puntato al cielo ha detto: fermi tutti, c’è stato un errore. Ha così richiamato sul palco Philip Seymour Hoffman, e rivolgendosi a lui e all’austriaco Seidl ha intimato: su, scambiatevi i premi, abbiamo sbagliato.

Dunque, ecco la giuste assegnazioni: Premio Speciale della Giuria a “Paradise: Glaube” e Leone d’Argento (riconoscimento alla regia) per “The Master” di Paul Thomas Anderson. Come detto, ha ritirato il premio, al posto di Anderson, il suo attore feticcio Hoffman, che qualche minuto prima aveva incassato a pari merito con Joaquin Phoenix la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile sempre per “The Master”. Per dare l’idea della sua performance premiale, occorre sapere che Hoffman era appena sceso dall’aereo e sembrava entusiasta di essere lì come lo si può essere quando si è a lavoro dopo una notte di sbronza. Ma comunque. “The Master” si è portato a casa due riconoscimenti (però, che cafoneria le assenze), lasciando dubbi su una frase del presidente di giuria Michael Mann a inizio cerimonia: un solo premio per film. Boh.

Anche perché – e questo ci fa piacere da fieri nazionalisti, meno entusiasma come spettatori – pure “E’ stato il figlio” ha prodotto due premi: quello per il miglior contributo tecnico a Daniele Ciprì, regista e direttore della fotografia della pellicola, e il Premio Mastroianni per l’interprete emergente a Fabrizio Falco (presente anche nella “Bella addormentata” di Bellocchio, tristemente rimasto all’asciutto), il quale Falco ha proferito la dedica più intelligente della serata: “Ai giovani attori che come me ci credono”. Niente retorica, tutta sincerità. Bravo.

Ma torniamo alla semiseria cerimonia. Ki-duk si porta in Oriente il riconoscimento più ambito. E giustamente: la sua è un’opera dolente, stilisticamente splendente, durissima e complessa, religiosa a suo modo. Di tanta purezza c’è traccia evidente nel suo autore, e nel suo stesso modo d’essere: oltre la sobria e nera tenuta da affettatore di sushi, è il modo in cui ha salutato il premio a essere straordinario: ha messo a tacere la platea e attaccato stonando una canzone di Buddha. Leggenda.
Tocca citare anche “Apres Mai” di Olivier Assayas per la miglior sceneggiatura: più adatta sarebbe stata una targhetta alla panna montata, per il suo post-sessantottismo e i suoi bobò, i più insopportabili mai visti al cinema. Hadas Yaron è la miglior attrice per “Fill the void”, “Kuf” la miglior opera prima.

Concludendo, gaffe a parte: ottima scelta per il Leone d’Oro; perfetto anche il Gran Premio alla Giuria per l’austriaco Seidl; due riconoscimenti sono onestamente troppi per “The Master” (molto più meritevole Phoenix di Hoffman e Anderson); se tra i premiati c’è Assayas a maggior ragione poteva esserci Bellocchio. Breve nota finale: degli italiani il miglior film è sembrato “L’intervallo”, di Leonardo Di Costanzo, purtroppo assente dal concorso principale, dove avrebbe potuto farsi molto valere. Quindi, non disperiamo: gli autori qui ci sono, abbattiamo piuttosto le rendite di cognome e di posizione.

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