Non ce l’ha fatta a portare avanti il peso di un’altra battaglia l’ex marò catanese Salvo Cannizzo, gravemente malato di tumore contratto a seguito del contatto con l’uranio impoverito utilizzato in Kosovo e provato dall’estenuante attesa per il riconoscimento della causa di servizio.
È morto ieri sera a Catania e quest’oggi verranno celebrati i funerali. La storia di Cannizzo, che aveva 36 anni, è comune a quella di tanti altri giovani meridionali che hanno scelto di diventare militari per sfuggire alla disoccupazione e alla precarietà.
Per chi, come lui, proveniva da Librino, le opportunità di un buon lavoro erano ridotte al lumicino. Per questo nel 1995 decide di arruolarsi e partire militare. Nel corso delle ultime interviste rilasciate ha avuto modo di ribadire più volte il motivo della sua scelta: lo stipendio a fine mese e le missioni all’estero.
Grazie alla sua abnegazione e prestanza fisica, il giovane catanese diviene sergente del famoso battaglione San Marco della Marina Militare e partecipa, proprio come suo desiderio, a diverse missioni di pace, tra cui quella in Kosovo tra il 1999 e il 2001.
Ed è proprio in Kosovo, precisamente a Djakovica, che Cannizzo e i suoi compagni di reparto trovano un carro bombardato e con la carrozzeria dissolta. Era un bersaglio delle munizioni caricate con l’uranio impoverito e mentre i soldati italiani non erano stati dotati di alcun tipo di protezione specifica, quelli americani utilizzavano tute ignifughe e autorespiratori.
«I nostri superiori ci dicevano che gli americani erano esagerati – ha affermato Cannizzo – ad usare tutte quelle precauzioni. Però a un sacco di militari italiani sono venuti dei tumori e agli statunitensi no».
Respiravano a pieni polmoni uranio impoverito gli italiani. E nel 2006 Salvo scopre di avere un tumore al cervello, si opera per la prima volta e viene trasferito a lavorare al ministero della Difesa. La malattia lo prova duramente nel fisico: lui che spingeva, come dichiarato in una delle ultime interviste rilasciate questa estate al collega Leandro Perrotta di Ctzen, 128 chili sulla panca in palestra.
Lo scorso anno, dopo un periodo di miglioramenti, la situazione di salute dell’ex militare si aggrava nuovamente ed è costretto ad andare in pensione: 800 euro al mese. Cifra che non basta per mantenere una famiglia, l’assegno all’ex moglie, un affitto, i viaggi negli ospedali del nord Italia e le costose cure per un tumore.
Così Salvo Cannizzo decide di rendere pubblico il proprio dolore e la propria malattia e lo scorso 2 luglio si incatena davanti alla sede catanese dell’Assemblea Regionale Siciliana, rivendicando il diritto a vedere riconosciuta la causa di servizio dal ministero della Difesa e un indennizzo per la malattia contratta. «Come me ci sono altri 2000 militari – aveva dichiarato ai giornalisti – e più di 300 sono morti. Dei nove colleghi della mia squadra ben cinque si sono ammalati di patologie simili. Ma il ministero non riconosce nessun indennizzo, come fanno a dire che non è una causa di servizio?».
Mostrava ai cronisti le medaglie conquistate sul campo e si sentiva abbandonato da quello Stato che per anni aveva servito, per questo motivo aveva anche iniziato uno «sciopero della chemio», in quanto non riusciva a coprire le spese per recarsi a Milano.
Denunciava con la stessa tenacia con la quale si era presentato alle telecamere di Report per una puntata su Catania e le sue opere incompiute. Salvo Cannizzo era anche un consigliere di quartiere di Librino e aveva raccontato al giornalista Antonio Condorelli tutte le magagne del quartiere satellite etneo. Il caso del marò Cannizzo è solo uno dei tanti di un gran numero di militari vittime dell’uranio impoverito e che ancora oggi chiedono giustizia e verità, attraverso class action e altre azioni legali.