“Generazione Norman”, i baroni dell’università non vinceranno

“Generazione Norman”, i baroni dell’università non vinceranno

PALERMO – I primi giorni di settembre che danno l’addio all’estate e alle vacanze restituiscono una città di nuovo brulicante di traffico e persone. Siamo nel quartiere Brancaccio, nel dedalo di viuzze dove padre Pino Puglisi ha lavorato e in cui, per il suo impegno antimafia, è stato ucciso. In quello stesso quartiere viveva anche un ragazzo, dal nome particolare e dalla personalità poliedrica. Norman Zarcone era un filosofo, un musicista, un letterato e un giornalista. Ma, soprattutto, era un giovane uomo che coltivava con dedizione il sogno di poter proseguire la propria carriera di ricercatore all’interno dell’università. Il muro con i cocci aguzzi di bottiglia, oltre il quale Norman non ha saputo intravedere un barlume di speranza, e contro cui si sono schiantati i suoi desideri è costituito dalle clientele, dalle baronie universitarie, dalle raccomandazioni.

«Esistono due libertà incondizionate: la libertà di pensiero e la libertà di morire, che è la stessa di vivere». Era questo uno degli ultimi pensieri scritti da Norman Zarcone, che il padre Claudio ci mostra in fotocopia, alla vigilia di quel funesto 13 settembre 2010 che cambiò la vita di una famiglia e che colpì, seppur a orologeria come spesso accade, la pubblica opinione. Norman decise di togliersi la vita, a soli 27 anni, dopo aver per tanto tempo inghiottito i bocconi amari di un dottorato di ricerca in Filosofia del Linguaggio, dopo due lauree nello stesso ramo ottenute con 110 e lode, che volgeva al termine.

Non vedeva più prospettive Norman. Sapeva che non avrebbe potuto continuare la carriera accademica e provava un forte senso di ingiustizia perché vedeva, molto spesso, sfilargli davanti chi aveva qualche santo in paradiso. Per questo motivo il 13 settembre di due anni fa decise di lanciarsi nel vuoto, dal settimo piano della sua tanto amata quanto odiata facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo. A pochi giorni dal secondo anniversario della morte il padre Claudio, giornalista e scrittore, ci fa entrare nello studio di Norman. Una chitarra, un basso, due tastiere, tantissimi libri, cd e foto alle pareti. Qui tutto trasuda cultura, ma anche voglia di vivere.

Signor Zarcone ha sottolineato con forza il significato del gesto di Norman. Non si tratta di un suicidio di un ragazzo depresso, ma come l’ha definita lei una “morte culturale”, perché?
Perché ho sentito tante falsità dopo la sua morte. Dicevano che era un ragazzo depresso, mentre lui era tutto il contrario: amava la vita e amava vivere. Mio figlio non è stato nemmeno ucciso dalla precarietà, in quanto non era nemmeno precario: era un dottorando senza borsa, quindi non guadagnava nulla. La sua è stata una scelta etica e filosofica, dettata dall’incapacità di accettare un sistema corrotto da baronie, familismo e raccomandazioni. A mio figlio non mancava niente, poteva contare sulla famiglia. Ma il suo è stato un grido di dolore come quello di Jan Palach, perché si è sentito offeso nella sua essenza spirituale. Diceva che ormai per farsi sentire ci sarebbero voluti dei gesti forti. Lui l’ha fatto, ma non molti hanno voluto sentire.

A chi si riferisce in particolare?
Io ce l’ho con le baronie universitarie. Dopo la morte di mio figlio non è stata avviata nemmeno un’indagine interna all’università. Non hanno voluto intitolare, come era stato richiesto dai colleghi e dagli amici di Norman, un’aula di Lettere a mio figlio. Hanno continuato a trattarlo come lo trattavano da vivo: un corpo estraneo all’interno del sistema. Nei dottorati vanno spesso avanti i protetti del professore, o meglio del barone, di turno. A Norman perdevano sistematicamente i capitoli del suo lavoro di ricerca, gli parlavano spesso con sufficienza e gli avevano fatto capire chiaramente che, al contrario di altri, non avrebbe avuto futuro lì dentro. Come disse un suo professore, questo è avvenuto perché “Norman era nella scuderia sbagliata”.

(Claudio Zarcone fuma di continuo. Non aspetta la prossima domanda. Inizia a parlare di suo figlio, delle sue passioni, delle ali che gli hanno spezzato).
Amava studiare. Diceva ai suoi amici che se gli avessero dato 1200 euro per studiare tutta la vita lui sarebbe stato felicissimo. Si era anche iscritto a Fisica e all’esame di Analisi Matematica aveva preso 28! Lui che veniva da studi classici e poi filosofici! Poi amava la musica e in suo onore mi sono rimesso a suonare il basso con i suoi amici, che adesso sono diventati i miei. Li considero tutti miei figli, non mi lasciano mai solo. Era anche giornalista Norman, aveva da poco preso il tesserino da pubblicista e stava conducendo un’inchiesta sulla mafia qui a Brancaccio. Per guadagnare qualcosa faceva il bagnino in un lido all’Addaura. Ci sono andato l’altro giorno: tutti lo ricordano con affetto. Mi raccontavano che teneva delle vere e proprie lezioni di filosofia ai bagnanti che lo ascoltavano rapiti.

Ha parlato della morte di suo figlio come di un “omicidio di Stato”…
Sì, lo considero tale. Chi non si genuflette al potente di turno e non accetta sodomizzazioni sarà condannato a un posto marginale nella società e non all’altezza delle proprie aspirazioni e capacità. Norman questo non lo accettava e con la sua morte ha lanciato un messaggio etico molto forte. Ho ritrovato diversi suoi appunti su Nieztsche e sulla possibilità di una “morte opportuna”. I giovani devono cambiare le cose, non possono accettare questo sistema malato: devono essere loro le voci dissonanti della società.

Dagli ultimi dati emerge quella che alcuni media hanno definito “generazione Norman”. Cioè una generazione di ragazzi specializzati ma senza un lavoro all’altezza delle proprie aspettative e costretti a ripiegare su altro. Che reazioni ci sono state a Palermo, specie tra gli universitari?
Reazioni quasi nulle. Non gli è fregato niente a nessuno: alle celebrazioni per Norman sono venuti solo i suoi amici e pochi altri. Se ci fosse stato un concerto di una rockstar si sarebbero precipitati a migliaia. Dovrebbe essere una generazione che si dovrebbe ribellare, ma che invece preferisce mettersi sotto l’ala del potente di turno e questo, specie in tempi di crisi, è molto più facile e comodo per tutti. Però se viene a mancare la richiesta di protezione, cioè la domanda, prima o poi verrà a mancare la protervia dei baroni, cioè l’offerta. È un fatto matematico.

Il destino beffardo ha voluto che dopo la morte di Norman all’università di Palermo sia scoppiato uno scandalo sugli esami “comprati” in alcune facoltà. Gli inquirenti scoprirono che per esame alla facoltà di Economia ci volevano 1.000 euro, qualcosa in più serviva per una materia ad Architettura o a Ingegneria…
Ricordo con precisione il titolo di un giornale locale sull’ateneo di Palermo. Sullo sfondo c’era una foto di mio figlio e mia moglie che piangevano abbracciati per la morte di Norman e il titolo recitava: “Università fra scandali e lacrime”. Norman aveva denunciato con il suo gesto forte quel microsistema criminogeno che tutti conoscono e contro il quale io lotto. Non ho mai preso una querela per le parole che ho speso contro i baroni. Si sa che c’è quel sistema, ma romperlo è parecchio difficile per i giovani.

La politica siciliana, in maniera bipartisan, le aveva assicurato il suo sostegno, promettendo la creazione di una fondazione dedicata a suo figlio. A distanza di anni il progetto si è arenato tra le sabbie mobili dell’Associazione regionale siciliana, tanto che il premier francese Hollande ha dichiarato di volersi interessare alla vicenda. Che ne pensa?
Innanzitutto ho già ringraziato il presidente Hollande per la sua sensibilità. Purtroppo la politica cannibalizza tutte le vicende e non avevo chiesto io la nascita di una fondazione. Mi è stata proposta e pensavo potesse essere una buona piattaforma di idee per i ragazzi, una fucina di libero pensiero e di legalità. Invece, siccome si tratta di una fondazione con un cda gratuito non fa gola a nessuno perché non garantisce posti di clientele e prebende. Adesso con il nuovo governo regionale l’iter per la fondazione dovrebbe ricominciare da capo, perdendo ancora tempo. Gli unici che mi sono stati davvero vicini, oltre la mia famiglia e gli amici di mio figlio, sono stati il presidente Napolitano, molto sensibile e paterno, e il presidente dell’Inter Massimo Moratti. Io, Norman e l’altro mio figlio siamo tutti interisti e il presidente Moratti è rimasto molto colpito dalla vicenda, tanto che all’inaugurazione dello spazio all’interno dell’Università “Generazione Norman” è venuto e si è molto emozionato. Lo ringrazio per la sua vicinanza.

Lei ha scritto un libro sulla vicenda, ha inciso delle canzoni e prodotto un dvd con il sostegno della Provincia di Palermo. Molti giovani ricercatori la contattano per raccontarle il coraggio della denuncia arrivato dopo il gesto di suo figlio. La forza per credere in un cambiamento c’è ancora?
Dopo la sua morte sono precipitato in un baratro, ma ci sono tante cose che gli dovevo. Il libro erano degli appunti di vita che andavo scrivendo la sera, poi da quel 13 settembre 2010 è cambiato. Si intitola Il cane di Zenone è molto più veloce di me, perché si rifà alla metafora di Zenone di Cizio, in cui il rapporto uomo – vita viene rappresentato come quello di un cane legato a un carro. Se il cane riesce a seguire l’andatura del carro ogni cosa sarà agevole, se si ribella non seguendo il carro rischia di essere travolto. Norman si era ribellato a questa società che non riconosce il merito, dove i giovani meritevoli sono isolati e abbandonati. Ma ci sono i giovani che intendono reagire nel loro piccolo, mi scrivono e mi raccontano le loro storie. Sono diventato amico di una ricercatrice di Roma che solo per aver citato alcune mie parole è stata espulsa dal suo dipartimento ed è stata anche querelata.

Quale sua frase aveva citato?
Io avevo detto che la mafia non è solo quella che uccide e spara di Totò Riina, che era un cafone. C’è un altro tipo di mafia altrettanto pericolosa: quella dei colletti bianchi che mortifica le intelligenze e che li umilia. A questo tipo di mafia occorre togliere il potere. 

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