Hai un film così così? Chiama Servillo, lui te lo salva

Hai un film così così? Chiama Servillo, lui te lo salva

Venezia. Se Toni Servillo fosse una macchina, sarebbe una Mercedes. Non solo perché va forte ed è affidabile, ma anche perché regge benissimo anche sul mercato dell’usato garantito. Servillo è l’unico che riesce a offrire ottime prestazioni anche su storie ormai usurate. È per quello che tutti lo vogliono: pure se il ruolo è immondo, lui tiene comunque la strada e alla fine ti porta a casa. Intendiamoci, il film di Daniele Ciprì “E’ stato il figlio”, prima pellicola italiana in concorso, non fa affatto schifo: ma sostanzialmente è una strada statale un po’ troppo dritta e pianeggiante, che chiede a Servillo il repertorio piuttosto rodato di mosse e sguardi, maturati e perfezionati tra palco e set, per un personaggio della Palermo popolare che si vede ammazzare la figlia dalla mafia e coi soldi che lo Stato gli dà – attraverso il fondo per le vittime di Cosa nostra – non sistema la famiglia ma si compra invece una macchina. Una Mercedes, appunto.

Ciprì con Franco Maresco ha formato una geniale coppia creativa, prima a Cinico Tv e poi al cinema. Poi i due si sono divisi e ora lui debutta in solitaria. Offrendoci uno sguardo sulla città siciliana per niente banale, ma senza veri guizzi. Non manca l’attenzione grottesca per facce e tipi un po’ freak, e funziona il ritratto del Paese di quando c’era ancora la lira, la gente camminava sulle Ritmo, le bambine si chiamavano Serenella come una canzone di Amedeo Minghi, e il degrado era lo stesso identico di oggi. La sbornia della ricchezza nasce da un lutto terribile, e questo è un contrasto feroce, ma non abbastanza sviluppato. Tra scene indovinate come quella in cui Servillo si sente il re di Palermo, immaginandosi in un mondo fatto di cartoline di Mondello, cannoli strapieni di ricotta e bandiere di Trinacria, avendo per geniale sottofondo le note di “Impossibile” di Massimo Greco; e altre meno azzeccate, come il finale dolente, su musiche simil-bachiane, troppo retorico. Comunque, Ciprì è un regista vero, colto, attento, e si vede.

Ottima è invece la coppia attoriale Dennis Quaid-Zac Efron nel film “At any price” di Ramin Bahrani. Il classico film rispettoso dello spettatore e dei soldi del biglietto. Un film sull’America rurale, dell’Iowa coi suoi agricoltori-manager dalle linde camicie a quadri e mezze maniche, legati al profitto come se fossero a Wall Street (anche perché “il mais in borsa vale più dell’oro”). Bellissima l’ambientazione, tra infinite distese di grano, pale eoliche, silos, e bandiere a stelle e strisce ovunque. E su quella terra apparentemente immacolata, il dramma di Quaid, capofamiglia che non sa a chi lasciare la terra, tra un figlio che preferisce le scalate in Argentina e un altro che vuol fare il pilota (Efron), guadagnando certo qualcosina, ma sono solo “soldi per birra, birra, e aborti”. Sarà proprio quest’ultimo l’erede, dopo aver ritrovato un’intesa col padre, ma al prezzo di un delitto non perseguito, e compiuto per il vil denaro. Regia solida, copione preciso, nemmeno un personaggio sbagliato, una emozionante poesia dei bolidi. Grande professionismo.

Ma la più bella interpretazione della giornata, occorre dirlo, è stata quella degli addetti della mostra che piantonavano di prima mattina la Sala Darsena per “The Master”: questi o sono fantasmi riesumati di vecchi inquilini dei Piombi oppure devono aver studiato davvero molto bene la parte del caporale di giornata. Era una proiezione per “press only”, ma se eri in rispettosa fila da mezz’ora e lavoravi per il web, poteva capitarti di rimanere fuori; se invece eri della carta stampata, passavi avanti, anche oltre orario. Onestamente non si capisce la differenza culturale (meno ancora professionale) tra chi in diretta, ora per ora, sta raccontando come mai prima il festival, e certe mummie del giorno dopo (non necessariamente anziane) che Barbera deve aver recuperato in qualche deposito del Museo Egizio di Torino. Comunque, avremmo volentieri voluto spendere i 40 euro per una delle proiezioni serali, ma di biglietti nemmeno l’ombra. Lo avremmo fatto per amore di Paul Thomas Anderson, ma soprattutto per gesto umanitario, cioè per contribuire coi soldi del biglietto allo stipendio dei suddetti addetti, con cui essi avranno da comprare supposte e clisteri per loro imminenti, inattese e non del tutto piacevoli necessità. Cordialmente, e che la spending review li accompagni.

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