Facciamo un esercizio, insieme. Andiamo nel paese in cui la politica non esiste, i politici sono entità astratte: nomi, facce e sfiducie informi, e nient’altro. È il paese in cui la parola “primarie” suona male nelle orecchie, che perfino non sa bene cosa siano le “politiche recessive” ammesse dal premier. Non perché questo paese “non ci arrivi”, o perché non pensi preoccupato al proprio destino, solo che non ha tempo per quelle che ritiene, convintamente, tutte chiacchiere inutili.
Chi voterà mai questo paese? Eh, lo vedete, abbiamo l’abitudine mentale di tornare là, nelle mura del Palazzo, dove ci sono i noti potenti (si fa per dire), quelli che vanno nel primo scrollo dei giornali online, nelle prime sei pagine di quelli che hanno la carta, nei titoli o almeno nei pastoni dei tg. Ma quel paese, quel pezzo d’Italia che per molte élite (si fa sempre per dire) neanche esiste, a votare non ci pensa neanche. Forse lo farà, forse no: come ha sempre fatto. Questa volta, c’è da crederci, farà più fatica a trovare le ragioni per tornare a farlo.
Ma intanto quelle facce, quei nomi, quelle prime sei pagine, sono quanto di più lontano dal paese. Chiamiamolo pure paese “reale” – ma allora bisognerebbe avere la chiarezza e la libertà di chiamare “irreale” quello che gestisce o millanta potere – e rendiamoci conto che laggiù il “potere” di potere ne ha poco. Non parliamo naturalmente solo di quello che qualche saputello di sinistra definì “ceto medio irriflessivo”, ma anche e soprattutto di un modo che ha categorie ed esperienze in grado di sostanziare riflessioni e analisi, di fare valutazioni complesse per far sopravvivere un’impresa alla crisi, di chi si interroga sui cambiamenti in atto con, profondità attraverso l’esperienza propria e degli affetti più a sé più cari.
Diciamocelo: che potere ha sugli immaginari, sulle volontà, sulle aspirazioni e sulle scelte chi parla per codici econometrici, o sembra a casa sua solo tra i corridoi labirintici degli svariati palazzi romani? Che capacità ha di attrarre verso la “cosa pubblica” chi accetta di (anzi, sbava per) farsi rappresentare come un corpo estraneo che parla una lingua morta? Ovviamente, nessuna, e questo è il paese che viviamo, il momento che l’Italia attraversa.
I sondaggi, per quel che valgono naturalmente, rappresentano un paese che preferisce comunque il senso di sicurezza dato dalle “manovre recessive adesso, ma volte al risanamento di domani” di Mario Monti, rispetto a una politica di professione, non sapendo proprio più che mestiere sia “la politica”.
Naturalmente, però, che le manovre di Monti fossero “recessive adesso”, molti milioni di italiani lo sapevano già. Infatti mentre la sua gravosa serietà tiene nel consenso, le politiche da lui attuate riscuotono più o meno lo stesso deprimente gradimento di segretari di partito invecchiati con noi, o nati già vecchi. E così, se “non votare” fosse un partito, oggi come oggi andrebbe probabilmente al governo.
Intanto, quel paese, il nostro paese, va avanti o purtroppo, più spesso, va indietro: ma in un caso e nell’altro è da solo. Lo stato, quel luogo in cui più o meno tutti dovrebbero trovare un “noi” di cui essere parte, è spesso un nemico, soprattutto quando le cose ti vanno male. Ti devono dei soldi? Ti incagli in un secondo nelle secche avvocatesche e della giustizia civile. Sei un giovane professionista che dovrebbe inserirsi in quel mercato? È già saturo, e i privilegi dei più anziani colleghi te li puoi scordare, anche se dalle voci del popolo sei trattato come loro e dal legislatore perfino peggio. Sei uno che ha sempre pensato di voler studiare per vivere? Sei finito nelle secche di un’accademia irriformabile, fino ad adeguarti spesso alla furbizia e/o al lamento. Sei un operaio che fa fatica a far campare i figli? La parola “licenziabile” ti arriva manipolata per diventare uno slogan, mentre la “pensione” diventa semplicemente un miraggio. E così via.
Cosa pensa la politica di questo paese? Questi sì, invece ci interessa. Lontano dalla politica fatta di tattiche di palazzo e di frecciatine, pettegolezzi o allusioni per interpreti su Twitter, ci piacerebbe proprio capire cosa sanno, pensano, conoscono di quel paese reale. Quanto e come lo attraversano, senza i densi filtri delle agende di partito o degli appuntamenti blindato da 13 uomini degli “staff”. Cosa insomma ne sanno? Ne sanno poco, e le testimonianze sono tante. La prima, la più lineare, è la resistenza così immobile a seri tagli dei propri salari. Una cosa che consenta a loro di dire, per esempio: “ci arrivavano in tasca 12 mila euro netti al mese, ora sono diventati 7”. Difendendo comunque un ampio primato di onori ed oneri rispetto alla media del popolo rappresentato, ma certo dando un segno vero, tangibile, non di “spending review” ma solo di buona volontà. È infatti evidente che della politica, una delle pochissime cose che interessa a tutti è: “ma quanto guadagna?”. E dopo un ventennio che ha fatto impallidire fasti e sprechi della Prima Repubblica, senza eguagliarne mai le migliori competenze, la domanda del popolo sembra lecito. Non è possibile poi che i parlamentari non se ne accorgano, a meno di non andare mai in farmacia, in pizzeria, su un mezzo pubblico: dove quel tipo di brusii si sente spesso, anche perché a volte è un’invettiva declamata con chiarezza: “Mangiano, bevono e vanno in giro”.
Da lì, poi, si sarebbe dovuti partire per presentarsi da presentabili tra le persone che, per arrivare a fine mese, fanno fatica tutti i mesi. E non hanno cuscinetti pubblici di nessun tipo, mentre spesso incontrano l’inimicizia di un’agenzia delle Entrate che, dal canto suo, fa solo il lavoro che gli esecutivi e i legislatori – più o meno formalmente – gli hanno affidato. Non è facile prevedere, guardando lo scenario attuale e quelle prime sei pagine, che qualcuno destinato a quei palazzi riesca davvero ad arrivare nelle profondità, nelle corde e nelle paure, di quel paese. Fuoriclasse all’orizzonte non se ne vedono e il berlusconismo lascia in eredità la strana idea che forse è perfino meglio così. Chissà. Di certo, questo paese è in Europa e ormai lo sa. L’ha capito a colpi di “spread”, che magari sembravano coincidere con le ansie da strada che erano le sue. L’ha capito perché in fondo si confronta con un dilemma vero, che si manifesta anche in rabbia politica: meglio stare con Berlino, o scivolare verso il Nord-Africa? Per il momento, sembra tenere ancora Berlino, ma domani? Ecco, serve forse una politica che sappia spiegare a quel paese che il nostro posto è in Europa, e non è solo un fatto di evidente interesse nazionale, ma di quel minimo sindacale di orgoglio. Serve una politica che ricominci a essere parte del paese. Chi sa da che parte cominciare è pregato di candidarsi: in fretta e in modo esplicito.