Obama non ha più un programma, sinistra senza una visione

Obama non ha più un programma, sinistra senza una visione

Supponiamo che le elezioni americane si concludano come suggeriscono i sondaggi: Obama viene rieletto con un discreto margine (cioè senza trionfare), la Camera resta largamente nelle mani dei repubblicani e il Senato finisce in parità: 50 a 50. La sera del 6 novembre, sulle tv americane i commentatori cominciano a interrogarsi: con il Congresso in quelle condizioni il presidente Obama è un’anatra zoppa fin dal primo giorno. Dunque, il suo programma è in pericolo. A quel punto un analista pone una domanda arguta: “Quale programma?”

È proprio questo il punto. Qual è il programma di Obama? David Brooks, opinionista del New York Times, confessa di non essere riuscito a individuare una sola importante legge che Obama intenda varare nel suo secondo mandato, nonostante abbia ascoltato oltre ottanta discorsi alla Convention di Charlotte e consultato un gran numero di governatori, deputati e senatori democratici. L’arma più utilizzata dal presidente nel corso della campagna elettorale (e della Convention) è quella della paura. Che cosa accadrebbe se alla Casa Bianca salissero l’opaco Mitt Romney e l’estremista Paul Ryan, campione del Tea Party? Se le loro promesse saranno mantenute, la riforma sanitaria sarà cancellata, il diritto all’aborto eliminato, le tasse ai ricchi tagliate, lo stato sociale picconato, la presenza dell’amministrazione pubblica ridotta al minimo: i ricchi diventeranno più ricchi, i poveri più poveri, e per la classe media sarà il diluvio.

I democratici vengono invitati ad andare a votare per evitare una simile catastrofe. E in maggioranza ci andranno. Ma la strategia della paura non è sufficiente a suscitare l’entusiasmo dei giovani, come invece accadde quattro anni fa.

Nel 2008, di fronte a un paese logorato dalla guerra e dalla disoccupazione crescente, nei mesi della più grave crisi economica e finanziaria dal dopoguerra, Obama riuscì ad accendere gli animi grazie al proprio carisma e ad alcune suggestioni che penetrarono nel cuore di milioni di persone.

La prima parola d’ordine di quella campagna (hope) indicava la speranza di una politica estera non aggressiva e unilaterale, la sanità per tutti, la fine degli sconti fiscali ai ricchi, una società meno diseguale, l’investimento in nuove infrastrutture e in un’economia verde in grado di creare milioni di posti di lavoro. Era un keynesismo di tipo nuovo, con una coloritura ambientalista che riusciva a sposare gli ideali del movimento ecologista con le esigenze della crescita economica, un matrimonio virtuoso che sembrò aprire la porta a una nuova cultura.

La seconda parola d’ordine (change) era rivolta alla qualità della politica, logorata dalla polarizzazione tra due schieramenti sempre meno propensi a compromessi: Obama prometteva di superare le fratture ideologiche lavorando sulla concretezza di soluzioni condivise, in nome del bene comune. E la sua retorica avvincente convinse l’America.

Quattro anni dopo quelle suggestioni appaiono scolorite. Obama ha effettivamente portato a casa una storica riforma sanitaria e una legge per evitare gli eccessi di una finanza senza freni. Inoltre gli stimoli all’economia, il salvataggio delle banche e gli aiuti ai giganti dell’auto hanno evitato il crollo dell’economia e il naufragio di interi settori industriali. Ma dal novembre 2008 a oggi il numero dei disoccupati è cresciuto di tre milioni, il debito pubblico è salito di 5 trilioni di dollari, l’economia verde e il global warming sono usciti dal dibattito nazionale, mentre la partigianeria politica è alle stelle e al Congresso i democratici, finiti in minoranza alla Camera nel 2010, sono sotto scacco.

Obama ha effettivamente cambiato rotta in politica estera: tornando alla tradizionale politica multilaterale americana dopo l’ubriacatura neocon. Ma non è riuscito a chiudere il carcere di Guantanamo, come aveva promesso. E ha dato il via a una strategia antiterroristica (da lui stesso coordinata), basata sull’assassinio di ogni estremista ritenuto pericoloso, che ha suscitato l’orrore di molti dei suoi seguaci: può un presidente sentenziare la pena di morte di un nemico, senza un regolare processo?

Di fronte a risultati tanto controversi, Bill Clinton — in un acclamato discorso alla Convention democratica — ha spiegato che non bastano quattro anni per risolvere il disastro combinato in otto anni di George W. Bush. Quando mai si è visto un presidente insediarsi alla Casa Bianca con il sistema bancario sull’orlo del collasso, il mercato della casa e il Pil in picchiata, l’industria dell’auto in bancarotta, la disoccupazione alle stelle, la Lehman Brother in liquidazione? Obama ha ereditato un’America sull’orlo del precipizio, ha salvato il sistema bancario e la grande industria, ha evitato una depressione come quella del ‘29.

La lucidità e il carisma di Bill Clinton hanno lasciato il segno e forse è anche grazie a lui se Obama sta risalendo nei sondaggi. Ma un conto è costruire una narrativa vincente per raccontare i passati quattro anni di presidenza, un altro è disegnare una strategia efficace per il futuro. E all’Obama del 2012 sono proprio la strategia e la visione a mancare.

Il presidente democratico ha promesso che nel corso del prossimo mandato raddoppierà le esportazioni, assumerà 100 mila nuovi insegnanti di matematica e scienze, creerà un milione di nuovi posti di lavoro nel settore manifatturiero, dimezzerà i costi del college e continuerà a tagliare le emissioni di anidride carbonica. Ma non ha detto con quali strategie e quali risorse otterrà questi miracoli in presenza di un bilancio che, secondo gli impegni, dovrà essere tagliato di quattro trilioni di dollari nei prossimi dieci anni. Di fronte alla crisi che investe l’Occidente, Obama non indica una strada né propone una sfida in grado di scaldare il cuore degli elettori e far crescere una nuova generazione di democratici. La sua strategia può essere riassunta in poche battute: difesa del welfare esistente e aumento delle tasse ai ricchi. Capita anche in altri paesi del mondo: spesso i partiti progressisti promettono la conservazione delle conquiste passate ma non sanno indicare una strategia per il futuro.

Forse, se la sera del 6 novembre Obama sarà dichiarato vincitore, nei dibattiti che seguiranno qualcuno dirà che la sua vittoria di misura sarà dovuta soprattutto alla debolezza del candidato Mitt Romney, uno spento tecnocrate centrista che non sa sorridere davanti alle telecamere, e all’estremismo del suo vice, Paul Ryan che forse, con il suo ideologismo iperliberista, ha spaventato una parte dell’elettorato moderato.

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