Per il cinema straniero l’Italia è Napoli, e Napoli è sempre il paese d’o sole

Per il cinema straniero l’Italia è Napoli, e Napoli è sempre il paese d’o sole

Venezia. “Gondoliere, ti prego, accompagnami a Napoli…” cantava un sanremese Franco Califano. Ma oggi, nelle sale del Lido, il buon Califfo non avrebbe alcuna nostalgia vesuviana, perché Napoli è massicciamente presente in questa Mostra. Anzi, per certi versi, Napoli è l’Italia. Nella miglior commedia vista finora al Lido, purtroppo fuori concorso, “Love is all you need”, firmata dalla danese Susanne Beer, c’è l’Italia come regno della possibile felicità. E Italia vuol dire Sorrento, limoneti della Costiera, tramonti infuocati e mare blu. Oleografia? In effetti, il rischio viene corso più di una volta: sui titoli di testa, con le terrificanti note di “That’s Amore”, il primo istinto è metter mano alla pistola.

Ma la Bier è una fuoriclasse (due anni fa con “In un mondo migliore” vinse l’Oscar per il miglior film straniero, che aveva sfiorato già nel 2007 con “Dopo il matrimonio”), e gioca alla perfezione tra i tasti neri del dolore (incarnato nel lutto e nella malattia) e i bianchi dell’amore e della promessa di gioia. Ci riesce con una squadra d’attori eccellente, in cui spiccano i due protagonisti Trine Dyrlholm e Pierce Brosnan. Sullo schermo si rivede Ciro Petrone, l’indimenticabile Pisellino di “Gomorra”, film davvero caposcuola come nessun altro italiano negli ultimi anni (peraltro Matteo Garrone è in giuria quest’anno). Nell’Italia della Beer, che si attiene a uno dei topos più forti del recente cinema danese – da Lars Von Trier a Thomas Vinterberg – e cioè la famiglia come incubatrice di disperazione, il paesaggio rappresenta la valvola di sfogo alla tensione accumulata, e in esso si procede per spazi ariosi, colori forti, natura lussureggiante.

Una visione decisamente solare, tipica della cultura nordica nella rappresentazione del nostro Paese. Questa solarità cambia invece di segno allorquando a descrivere Napoli sono autori indigeni. È il caso di Leonardo Di Costanzo, apprezzato documentarista che stavolta si misura con il racconto di finzione “L’intervallo”, e Vincenzo Marra, autore del documentario “Il gemello”.

Se resta eternamente valida la celebre metafora di Raffaele La Capria sull’homo napoletanus “ferito a morte”, qui potremmo aggiornarla con l’immagine del napoletano “recluso a vita”. La Napoli dell’“Intervallo” e del “Gemello” è un enorme penitenziario dove le persone consumano la loro esistenza, sorvegliate e punite. Nel film di Di Costanzo, il luogo concentrazionario è un vecchio collegio femminile abbandonato e pericolante, dove viene rinchiusa dal boss del quartiere una ragazzina, colpevole di frequentare un ragazzo della gang rivale, e guardata a vista da un suo coetaneo che è prigioniero di quel sistema quanto e forse più di lei. Il film, che nella sceneggiatura vede la mano di Maurizio Braucci (un’altra traccia di “Gomorra”), è prodotto dalla Tempesta Film di Carlo Cresto-Dina, il produttore che con più coraggio ha imboccato la strada della sperimentazione, scopritore della stellare Alice Rohrwacher di “Corpo Celeste” (e a proposito di titoli presi dalla “napoletana” Ortese, “Il cardillo addolorato” sarebbe davvero perfetto in luogo dell’”Intervallo”).

Castigo per castigo, isolamento per isolamento, Marra non usa metafore e scende invece nelle viscere del carcere di Secondigliano sulle tracce del “Gemello”: la storia intrecciata di tre uomini tra il dentro e il fuori le sbarre, indissolubilmente legati da un unico destino di amicizia. Con questo film duro e controllato, il regista ritorna al tema della giustizia, affrontato già nel bel “L’udienza è aperta”, come chiave per raccontare una città storta.

Napoli, che al nostro cinema offre storie e autori in maniera sempre nuova e forte, non suggerisce quel felliniano “raggio di luce” che invece i cineasti stranieri, anche i più bravi, vi cercano e vi trovano. Quello che era ‘o paese d’o sole soffre e s’offre piuttosto come l’immagine più netta di un Paese sempre più cupo.

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