E’ il 1951. Inizia in Italia la discussione sul ruolo dello Stato nella politica industriale, nella sua gestione pubblica, nella sua funzione di ente che deve integrare o soccorrere l’industria privata in crisi. Il tema non è solo quello se lo Stato debba essere il “Pronto soccorso” delle imprese, ma se anche, contemporaneamente, debba definirsi una politica e una cultura del management di impresa capace di gestire e, perlomeno, di non far fallire le imprese.
Luigi Sturzo fa un primo intervento su “La Stampa” del 17 agosto 1951 (dal titolo Enti e burocrati) in cui sottolinea che non basta chiedere una corretta gestione dell’impresa, ma occorre anche sviluppare una cultura dell’iniziativa privata. Per questo critica Ernesto Rossi (di cui pure condivide molte idee e proposte) perché gli sembra che Rossi sia troppo “indulgente” – o almeno “eccessivamente concessivo “ – con gli amministratori pubblici. Rossi gli risponde il 22 settembre 1951 su Il Mondo con un articolo dal titolo “Il ciabattino e il pirata” (poi ricompreso in Settimo non rubare, Laterza, 1952, pp. 120-127) in cui difende la sua idea di distinguere tra un’impresa gestita male e la necessità di una presenza pubblica facendo l’esempio delle ferrovie che non possono essere privatizzate e spiega «Lo Stato non gestisce le ferrovie per ottenere un gettito fiscale, ma per dare un servizio pubblico e potrebbe essere buona politica prestare questo servizio a prezzi inferiori al costo di produzione,…».
La replica di Sturzo è nell’articolo che qui sotto si propone. E’ una risposta secca, argomentata, e che vale la pena rileggere.
Noi sessant’anni dopo siamo ancora lì. Con le stesse domande, senza risposte. O meglio senza il coraggio di darci delle risposte: argomentate, riflessive e credibili.
Luigi Sturzo, “Per smetterla con lo Stato pagatore, una buona volta!”*
Prima e dopo il fascismo, in Italia e all’estero, ho sempre ammesso e, occorrendo, sostenuto apertamente, un equilibrato intervento statale a fini politici e sociali ben chiari e determinati.
Non c’è dubbio che l’azione statale, anche se volutamente limitata al solo regime fiscale, interferisca nel ritmo dell’economia privatista. Lo stesso effetto ha qualsiasi regime doganale, tanto a scopo fiscale che a scopo politico (nei rapporti con altri Stati). Quando poi sopraggiungono esigenze eccezionali per epidemie, terremoti, guerre, i provvedimenti statali incidono naturalmente in parte o anche in tutta la struttura economica del Paese; sta al governo e agli organi dello Stato temperare, regolare, correggere il corso degli affari, per dare ai cittadini il minore disturbo possibile.
Il liberismo puro è una concezione irrealistica, come è irrealistico il dirigismo puro, il comunismo puro e tutto quel che l’uomo idealizza al di fuori della realtà concreta.
Stando con i piedi sulla terra, possiamo parlare di indirizzo, di orientamento, di relatività; infatti la legge più adatta all’uomo politico, come all’uomo di affari e anche all’uomo comune, è quella di un sano relativismo. Quando lo Stato liberale era timido ad adottare leggi sociali, non solo noi democratici cristiani della fine Ottocento, ma anche molti altri di vario settore, a parte i socialisti, sostenevamo il diritto dello Stato a intervenire, per proteggere il lavoro contro lo sfruttamento, sostenevamo il diritto dell’operaio a organizzarsi e il dovere dello Stato a riconoscerne i sindacati e le leghe. Si trattava, è vero, di interventi di carattere giuridico-sociale. Ma, facendo un passo in avanti, accettavamo anche le municipalizzazioni, allo scopo di far diminuire i costi e calmierare i consumi.
Naturalmente l’esperienza “italiana”, fatta spesso di facilonerie e di furberie, portò in molti casi, così nel campo della municipalizzazione come in quello della cooperazione, a elevare i costi e a fare sparire gli utili e i vantaggi che si speravano. Proprio come avvenne nel campo delle assicurazioni di Stato, che pur favorimmo nonostante certe riserve. Ma in teoria avevamo ragione e in pratica no.
Oggi il timido “intervenzionismo” della fine del secolo scorso è superato; il cosiddetto “dirigismo” di Stato è accettato da tutti, anche se si è arrivati a formare un migliaio di enti statali o parastatali. Lo Stato non si è limitato a regolare l’economia a mezzo degli interventi fiscali e doganali; ha prodotto con i suoi interventi due grossi monopoli intercomunicanti: il monopolio dello Stato, parte scoperto e parte sotto etichette varie, e il monopolio di grandi imprese apparentemente libere che vivono dei favori diretti o indiretti dello Stato. Quando tali imprese vanno male, si annettono apertamente e subdolamente allo Stato, che così accresce il suo immenso “demanio” industriale, immobiliare e mobiliare. Di questo passo lo Stato, in forma caotica e incoerente, costituirà una nuova manomorta superiore a quella feudale dei monarchi o delle Chiese del Medio Evo e quasi pari all’attuale manomorta sovietica.
La situazione italiana di oggi è di una incoerenza tale, che il prof. Rossi può denunziare la mala amministrazione statale, l’invadenza burocratica nella economia, il parassitismo a danno dello Stato, e allo stesso tempo scrivere contro i “baroni” o i “briganti” dell’elettricità o dello zucchero e in genere contro i “pirati” di terra e di mare della industria privata; con l’eccezione del cielo perché là non c’è nessun “pirata”, dato che la nostra industria aviatoria non ha possibilità di contendere con quelle estere, che si aggiornano sempre di tutte le novità scientifiche succedentisi a ritmo accelerato.
L’assurdo dell’economia italiana sta nel fatto di essere apparentemente privatistica e di mercato, ma effettivamente controllata da uno Stato che pretende di dirigere e non dirige; mentre il privato cerca di farla al dirigente e al cliente e la fa a se stesso.
Fra gli elementi del caos economico che si è prodotto in Italia, il primo e il più grave è di natura psicologica. Gli operai, quelli che, lavorando o anche non lavorando, hanno la fortuna di un salario giornaliero assicurato, pensano che, se non paga l’imprenditore, pagherà lo Stato, sia direttamente sia sotto i fatidici nomi di Iri, Fim, Ilva, Ansaldo e simili; hanno così perduto il senso del rischio. Se sono licenziati, tentano le agitazioni sindacali, gli scioperi, l’occupazione delle fabbriche, sicuri che, novanta volte su cento, la spuntano. In tutti questi casi, casi di ogni giorno, il meno che si pensa è di rendere efficiente l’impresa e di evitare che l’impresa fallisca. Anche l’impresa in stato fallimentare deve vivere ed essere oggetto di salvataggio statale.
L’imprenditore, da parte sua, non solo entra in questo ordine di idee, ma usa dell’arma dei sindacati operai e delle deputazioni politiche di tutti i partiti per costringere ministeri e governo a intervenire.
La burocrazia non sta con le mani in mano, sia quella normalmente amica, pour cause, degli industriali, sia quella eventualmente interessata; sia anche quella impegnata dai ministri a trovare una soluzione temporanea che allontani il disturbo e rimandi la ricerca di rimedi più sostanziali. Se, ciò nonostante, non si riesce a salvare le imprese, le larghe braccia dello Stato sono là per rilevare tutte le Brede, tutte le Reggiane e tutte le Ducati di questo mondo, accrescendo la manomorta industriale statizzata.
Il prof. Rossi domanda a bruciapelo se sia possibile il fallimento della Fiat. Io escludo l’ipotesi, non perché la Fiat non sia come tutte le cose umane, che possono andare bene o male, ma (a parte la solidità di quella impresa, che vorrei più contenuta e senza tante filiazioni) perché escludo che si debba a priori ipotizzare il caso di un salvataggio statale di un’impresa in fallimento. Fatta l’ipotesi viene creata di botto la psicologia del pubblico che lo Stato è obbligato a garantire tutte le imprese industriali che andranno male. Non ne resterà una in piedi.
Se la Fiat, nonostante tutti gli aiuti e le protezioni avute, come ogni altra impresa industriale, andasse male, e io fossi qualcosa nel governo italiano (supposizione ieri irrealizzata e oggi irrealizzabile), sequestrerei tutti i beni degli azionisti della Fiat e di tutte le società alle quali partecipa la Fiat per fare fronte al disastro, manderei in galera tutti i responsabili del fallimento e metterei l’impresa in mano ad abili liquidatori. La nuova Fiat verrebbe su sana e valida, senza debiti e senza creditori.
Quegli operai licenziati dovrebbero essere messi alla pari dei disoccupati, per i quali lo Stato provvede nei limiti delle sue possibilità, curando che nessuno muoia di fame, ma chiarendo che nessuno possa avanzare diritti contro lo Stato.
Questo atto di politica risanatrice porterebbe certo la ribellione dei sindacati, il voto di sfiducia dei deputati, la crisi ministeriale, ma sarebbe l’inizio dell’apertura degli occhi degli italiani che non vedono verso quale disastro si va incontro ammettendo a priori che nessuna impresa importante debba fallire.