KABUL – «Sì, sì, assolutamente sì. Ne vale la pena». Un’affermazione ripetuta con forza, con tono incalzante, quasi a sancirne l’indubbio valore. A rispondere è il primo caporal maggiore Sara Crivellari della brigata Taurinense, addetta alla cellula della pubblica informazione del Camp Arena di Herat. Sguardo fiero, voce ferma, replica senza indugi alla domanda se vale ancora la pena, al giorno d’oggi, sacrificare la propria vita all’idea di nazione. Parla con orgoglio della divisa che indossa, e di quella passione che ti spinge a fare un tipo di lavoro come il suo, a quattromila chilometri di distanza da casa, in un territorio impervio come quello dell’Afghanistan.
Quando il primo caporal maggiore Crivellari si racconta, però, non può certo immaginare che, tre giorni dopo, in uno scontro a fuoco nel distretto di Bakwa, perderà la vita un altro alpino, un suo collega, il caporale Tiziano Chierotti. Chissà cosa risponderebbe, oggi, interrogata con la stessa domanda. Probabilmente Sara userebbe le stesse parole, ma la sua voce sarebbe un po’ più fioca, forse, e gli occhi leggermente velati.
«Tiziano era un ragazzo d’oro – racconta un sottufficiale che lo conosceva bene – corretto, puntuale, preciso». Lo ricorda anche un tenente giovanissimo: «L’ho salutato a Genova due anni fa, l’ho rivisto giovedì sera sulla pista di Herat. Ciao fratello Alpino, andato avanti nel Paradiso di Cantore», scrive sulla sua pagina Facebook. L’espressione «Raggiungere il Paradiso di Cantore» si usa, tra i militari del corpo, per indicare la morte di un Alpino.
Base avanzata a Farah
«Noi siamo qui per il tricolore, perché ci crediamo e portiamo avanti le nostre convinzioni», affermano i militari con cui riusciamo a parlare nella nostra settimana di permanenza a Camp Arena. Sulle loro uniformi sono cuciti gradi differenti, appartengono a diverse forze armate, ma la mimetica è un unico collante. La sera poi, dinanzi alle cabine telefoniche, quando fugacemente riusciamo ad intercettarne scampoli di conversazioni, si mescolano gli accenti ed escono fuori uomini e donne comuni, papà che rassicurano i figlioletti dall’altra parte del cavo, agitati per il compito in classe di matematica dell’indomani, ragazze che contano con il proprio «moroso» i giorni che mancano alla tanto agognata licenza.
«Il pericolo ad Herat e dintorni è sempre in agguato, la calma è solo apparente – racconta un sergente dei Marò del reggimento San Marco. Lui, fortunatamente, non ha mai subito alcun attacco: «Perché San Marco ci protegge», esclama sorridendo. Esser in grado di attenuare la carica di adrenalina concedendosi a qualche battuta per rincarare la dose, in un simile contesto, è di fondamentale importanza. E così a volte, dopo lunghi turni e mansioni complesse e delicate, basta anche una pizza con i colleghi, il sabato sera, nella pizzeria della base poco distante dalla mensa, per respirare un po’ di normalità.
Ma cosa significa essere in missione in Afghanistan? A spiegarlo è il colonnello Riccardo Cristoni, comandante del nono reggimento alpini dell’Aquila di base a Farah: «Non c’è il concetto di nazione qui, la realtà locale è ancorata alle tribù, è questo il loro unico senso di appartenenza. Il governo centrale è a Kabul, chilometri e chilometri di distanza, e molti afgani non sanno neanche chi è Karzai, per questo è complesso far sì che abbiamo fiducia nelle istituzioni», spiega il comandante.
Anche Il capitano Ernesto Iacangelo conosce bene la popolazione afgana. Per mesi ha operato «spalla a spalla» con i colleghi autoctoni nel Military Advisory Team (Mat) presso la base avanzata di Farah, impegnato nella formazione e assistenza delle unità dell’esercito afgano a cui, dal 2014, con l’annunciato ritiro delle truppe, l’Italia lascerà il controllo del territorio. «La cosa più difficile è instaurare il rapporto di fiducia, creare quell’empatia necessaria per condividere tutto – racconta ripercorrendo con la mente il suo operato – ma quando ci si riesce diventa un’esperienza molto forte dal punto di vista umano». Al termine della sua missione è stato salutato da un comandante della Ansf (Afghan National Security Forces), con cui aveva molto legato, con queste parole: «Non so se essere contento perché torni a casa, o dispiaciuto perché perdo un fratello».
Il capitano lo ricorda con un velo di emozione. «Entrare a contatto con i locali – dice – è una scoperta continua. Per i Pashtun l’ospite è sacro, e così capita che sono disposti a lasciar i loro figli senza nulla da mangiare – spiega – pur di offrire qualcosa al visitatore». Spende una parola anche sui talebani: «Sono gli oltranzisti delle tribù, ma l’Afghanistan è tanto altro ancora».