Mentre tira aria di guerra con la Siria, Erdogan vuol rifare l’impero

Mentre tira aria di guerra con la Siria, Erdogan vuol rifare l’impero

La Turchia dopo dieci anni di governo del partito islamico moderato Akp (Partito della Giustizia e del Progresso) guidato da Recep Tayyip Erdogan, sta giungendo ad un punto di svolta. Secondo le regole costituzionali, alle elezioni del 2014 l’attuale Primo Ministro dovrà cedere ad altri la guida del governo.

Erdogan punta per due motivi a una profonda revisione della Costituzione imposta dai militari golpisti nel 1982. Carta fondamentale, contraddistinta da un forte autoritarismo, da un ruolo ancillare dei partiti (riammessi al gioco politico solo nel 1985 con il grande Turgut Ozal, vero iniziatore della modernizzazione dell’economia del paese e iniziatore sfortunato del dialogo con la minoranza kurda) e da un predominio incontrastato dell’esercito – attraverso il controllo della magistratura e, soprattutto, il controllo del Consiglio di Sicurezza Nazionale. Qui i militari spadroneggiavano, con i pretesti della minaccia kurda all’unità nazionale turca e con quello della difesa ad oltranza del patrimonio laicista, “legato” alla Nazione da Mustafà Kemal Atatürk.

L’obbiettivo di Erdogan è duplice: quello di continuare a governare di fatto – quantomeno sui temi principali – trasformando, attraverso le armi di un voto popolare diretto per il futuro presidente e con un forte ampliamento dei suoi poteri istituzionali, il sistema costituzionale turco in una repubblica presidenziale o, quantomeno, semi-presidenziale. Alcuni ambienti occidentali si sono preoccupati per i severi processi a generali e ufficiali in pensione, colpevoli di aver tentato (o attuato) colpi di stato nel 1997, nel 2002, 2007 e 2008 contro il governo dell’Akp ed Erdogan.

È possibile che alcune prove o indizi siano stati un po’ gonfiati, ma la sostanza vera è che alcuni Capi di Stato Maggiore, prima con il piano “ Sledgehammer” e poi con il piano “Ergenekon”, abbiano tentato di rovesciare un governo civile di tendenza islamico moderata. Non va però, al contempo, trascurato il fatto che il cambiamento della Costituzione voluta dai militari di Kenan Evren nell’82 (dopo il golpe dell’80) era ed è uno degli impegni solenni che la Turchia si era presa con l’Unione Europea per riavviare il processo di accesso alla Comunità Europea, da anni bloccato per volontà franco – tedesca. Sul piano interno, il cambiamento della Costituzione può essere l’anticamera per la pacificazione con la numerosa minoranza kurda che ha ripreso violentemente le armi, sobillata dal regime siriano di Assad.

Nel corso degli anni passati, nonostante l’aperta e cieca ostilità di Parigi e Berlino, l’“europeizzazione” di tante leggi su diritti umani e civili e su regolamenti economici, commerciali e giuridici ha contribuito a spianare la strada non tanto all’accesso all’Ue – che dai tempi dell’elezione di Nicolas Sarkozy e a causa del suo “filo armenismo d’accatto”, puramente e vanamente elettoralistico, si sapeva essere bloccata – quanto alla modernizzazione capitalistica del paese e al suo straordinario sviluppo economico tra il 2002 e il 2011. Oggi la Turchia, viaggia ancora, nonostante la recessione europea, a più che rispettabili ritmi di sviluppo del Pil (attorno al 2,9 – 3, 2%) e a un + 3,4% della produzione industriale (dati dell’ ultimo “Economist” 29/ 09 / 2012) tanto da farla assurgere al rango di paese del gruppo Brics.

La politica estera e commerciale del ministro degli esteri Ahmet Davutoglu si poteva riassumere fino al 2010 nello slogan “zero problemi” con gli Stati confinanti. Da circa due anni le cose sono cambiate. Prima vi è stata la pesante rottura sulla questione palestinese con il vecchio alleato Israele a cui erano stati concessi privilegi commerciali, ma soprattutto di carattere militare, addestrativo e geostrategico. Poi sono intervenuti alcuni fatti che hanno sconvolto tutto. Prima la progressiva applicazione di sanzioni commerciali e finanziarie all’Iran a causa dei suoi programmi di arricchimento nucleare sui quali, tuttora, pendono minacce di guerra preventiva da parte del governo della destra israeliana. In secondo luogo, da oltre 18 mesi, vi è stato lo scoppio e il diffondersi a macchia d’ olio della sanguinosissima guerra civile siriana. Non c’ è dubbio che, al di là, di ogni giudizio, la sostanziale paralisi della Siria con i suoi 24/25 milioni di consumatori ha inferto un duro colpo all’economia turca, non meno delle sanzioni all’Iran con cui c’era un forte interscambio.

Proprio lo sviluppo dell’interscambio con i paesi del Vicino e Medio Oriente era uno dei caposaldi della nuova dottrina geopolitica e geo-economica della Turchia che, negli ultimi anni, aveva visto diminuire (pur rimanendo importante) la quota dell’interscambio con l’Europa comunitaria. Lo sviluppo delle esportazioni turche verso la Siria, l’Iraq e l’Iran aveva dato, fino a un paio d’anni fa, un grande sviluppo all’industrializzazione di vaste regioni dell’Anatolia, creando veri e propri poli di sviluppo nei più vari campi merceologici e nel settore agroindustriale, tessile, forti settori specializzati della Turchia con produzioni di tutto rilievo e qualità. Sul piano sociale ciò aveva contribuito alla formazione di una radicata borghesia e classe media anatolica che aveva scalzato dal potere le élite laiche urbane alleate del kemalismo militareggiante.

La Turchia dovrà fare di necessità virtù ed espandere la propria proiezione verso la Cina ed i paesi asiatici, in misura superiore all’attuale. Una qualche soluzione della questione kurda, tradizionale spina nel fianco di Ankara e giustificazione per un eventuale ritorno di fiamma dei militari turchi (che non si rassegnano del tutto alla perdita di “status”) può contribuire fortemente agli scambi con l’Iraq, grande produttore di gas e petrolio, di cui la Turchia è mancante ed affamata. L’industria delle costruzioni turca che da un ventennio buono compete sui mercati internazionali nel campo delle infrastrutture ecc., per non parlare di altri settori, può dare un forte contributo alla ricostruzione in ogni aspetto di un paese vittima non solo di Saddam Hussein, ma della strategia della “terra bruciata” da parte di Washington e Londra fino dal lontano 1995, ben prima dell’invasione del 2003. La presenza di Mohammed Morsi al Congresso dell’Akp fa ben sperare in vista di un avvicinamento dell’Egitto alla Turchia, ma potrebbe essere foriero di nuovi scambi e investimenti turchi nella disastrata economia egiziana. Lo stesso potrebbe essere detto per Libia, Tunisia e Marocco.

Purtroppo le economie dei paesi europei ed occidentali, di questi tempi, stanno messe male e non fa meraviglia che gli impulsi maggiori allo sviluppo dei paesi del cosiddetto Terzo e Quarto Mondo vengano più dagli investimenti dei paesi dell’area Bric o assimilabili, che non dai paesi ex coloniali o neocolonialisti che mantengono intatta tutta la loro prosopopea, culturale, di civiltà più declamata che applicata.

Da lungo tempo si sottolinea come la Turchia sia oggettivamente ponte tra l’Occidente e l’Oriente. A volte ad Occidente si fa, consapevolmente o no, di tutto per buttarla ad Oriente. C’ è però un dato incontrovertibile: è quello che la Turchia – povera di energia ed idrocarburi, comunque estratti – per poter sopperire al proprio fabbisogno energetico non può che rivolgersi a Sud e a Est e non certo a chi di petrolio e gas ne ha proprio pochino. Non può meravigliare, quindi, che Ankara ed Istanbul si rivolgano alla Russia, all’ Iran e alle Repubbliche ex sovietiche, nonché turcofone, dell’Asia Centrale.

Quello che nel XIX e agli inizi del XX secolo veniva definito “l’uomo malato del Levante” può ritornare ad essere una potenza regionale intermedia sia mediterranea, balcanica, che mediorientale con cui l’Europa dovrà presto tornare a fare i conti, non necessariamente in termini bellici e conflittuali come ai tempi dell’Impero Ottomano. 

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