Salles porta Kerouac sul grande schermo, ma il film è scialbo

Salles porta Kerouac sul grande schermo, ma il film è scialbo

Dopo oltre mezzo secolo dalla sua comparsa, uno dei libri più celebri del Novecento americano diventa un film. “On the Road” di Jack Kerouac si presenta sui grandi schermi grazie al decisivo contributo di Francis Ford Coppola, che a lungo ha inseguito il progetto come regista e qui veste i panni di produttore (c’è anche suo figlio Roman). Dirige Walter Salles, il cineasta brasiliano che dopo “I diari della motocicletta” su Che Guevara affronta un altro autentico mito giovanile (ancora oggi l’immagine del guerrigliero e il titolo del romanzo beat sono tra le poche icone anni Cinquanta sopravvissute al tempo – James Dean ci pare vada calando – e puntualmente ancora spuntano nelle camerette di molti adolescenti, almeno in Italia).

Salles conferma in questo film la sua perizia narrativa, dimostrata in passato con “Central do Brasil” e soprattutto “Terra Estrangeira”. Qui adotta però una correttezza hollywoodiana che finisce per ingabbiare il progetto. Non basta proporre scene di sesso (molto trattenute, peraltro) e mescolare sorsi di whisky con assunzioni di marijuana e benzedrina, per restituire gli eccessi di questo racconto picaresco, peripezia letteraria e sentimentale nella gloria del paesaggio americano sull’asse di quattro attraversate continentali tra New York e San Francisco, via Denver, con qualche puntata allucinogena in Messico.

Manca nel film la cifra del dolore, manca il tormento come chiave espressiva, non c’è uno stile di racconto che restituisca la penna torrenziale di Kerouac che cerca di afferrare il mondo mentre gli scappa via da tutte le parti. Per dire: lo scrittore dichiarò che “On the Road” era scritto per una donna; quella donna era la sua prima moglie, Joan, che lo aveva abbandonato rifiutandosi di abortire come lui le aveva chiesto. Non c’è bisogno di sapere il retroscena per essere travolti dal travaglio, dall’inquietudine – forse talora ingenui, ma sinceri – che infiammano le pagine.

La pellicola è purtroppo meno infiammata. Sbilanciata, specie nella prima metà, più sulla superficie (lo scarrozzare per l’America, lo sballarsi, l’accoppiarsi) che sulla profondità. Il personaggio protagonista, Sal (nome per intero: Salvatore Paradiso, identità italiana e soprattutto cattolica che più cattolica non si può), interpretato da Sam Riley, perde in sostanza, ha poca psicologia e quando lo vediamo scrivere dei suoi viaggi e dei suoi incontri “on the road” sembra più un turista alle prese col diario che uno scrittore della nuova frontiera. Dean Moriarty (Garrett Hedlund) possiede invece maggiore appeal, forse perché più accattivante già sulle pagine. Il rapporto tra i due, esistenzialisti dell’autostop, mistici sulla scia d’asfalto, nella seconda parte diventa più intenso perché più amaro, e il film ne guadagna.

Kristen Stewart, nella parte di Marylou, il punto rosa di questo triangolo amoroso, è un po’ scialba; Kirsten Dunst ha una parte non memorabile; invece Viggo Mortensen nei panni di William Burroughs conferma la sua grandezza, pur nei pochi minuti sullo schermo. 

Ottimo il lavoro sulla colonna sonora, il jazz è un vero e proprio personaggio: al cinema, non mediato dalle parole, ha un effetto trascinante. E forse, con un maggiore sperimentalismo nella messa in scena, avrebbe servito ancor meglio la storia, certamente difficile da tradurre in immagini senza sentire troppo il peso della potente icona culturale all’origine. 

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