C’è chi è più efficace, in questo talk all’americana. E chi fa più fatica. C’è chi, come Matteo Renzi, arriva sempre giusto sui tempi e ha sempre uno slogan adatto quando sta per scadere il minuto e mezzo e chi, con la stessa brillantezza, gioca sulla sponda opposta come Nichi Vendola. C’è chi va avanti col suo passo un po’ antico da “usato sicuro” – ed è Pierluigi Bersani -, e chi gioca da sponde diverse il ruolo di outsider, come fanno Bruno Tabacci e Laura Puppato.
E però, alla fine del dibattito, colpisce quello che non c’è, più di quello che c’è. Sarà colpa della formula, che obbliga a essere incisivi nel breve periodo di tempo ma anche a non scoprirsi consentendo eventuali repliche, o della paura del controllo dei fatti e dei dati forniti. Sarà forse l’insieme di questi elementi, ma fa impressione annotare che, dopo un’ora di un dibattito, arrivati alla pausa, e dopo aver parlato di riforma del lavoro, di tasse e riforma fiscale, di evasione fiscale, della Fiat di Marchionne, tutti e cinque si son tenuti serenamente alla larga dalle “promesse” – ad esempio quella sulla disoccupazione giovanile, più volte sollecitata dalla conduzione – e tutti, ogni volta che c’erano richieste di dati e numeri, svicolavano. Paura del controllo, paura del fact-checking, paura del diritto di replica, sdoganato da Renzi (peraltro sul tema più politicista e populista, quella sulla casta) e poi seguito da altri.
Così, alla fine di un dibattito, la sensazione che si respira in sala assomiglia alla promozione dei profili pregressi, a ciò che di questi il consenso generale pensa di loro e a quello che le claque in sala si aspettano di sentire e applaudono. Vendola fa così il solito appello vago e dai contorni imprecisi all’indignazione dei giovani quando gli si chiede cosa prometterebbe loro da Premier. Renzi imbrocca il passaggio su Marchionne – “se ogni tanto fa una macchina buona non ci offendiamo” – e si affida a Ichino: non su Marchionne, sul quale Ichino ha preso di recente posizioni fortemente riformiste, ma sulla riforma Fornero che archivierebbe a favore della flexsecurity del giuslavorista.
Nel dibattito, si vede in più passaggi, ognuno dei cinque sembra attento a difendere il proprio recinto, più che non ad allargarlo. Così, Bersani promette più soldi per il diritto allo studio (quanto? Come?) mentre Tabacci difende con rigore il professionismo politico, Laura Puppato punta sulle energie verdi e sulla questione di genere, Renzi punta (forse con qualche prudenza di troppo) sul suo profilo liberal e meritocratico, mentre Vendola sgrana il rosario dell’uguaglianza e delle parole d’ordine che conosciamo, fino ad accusare di liberismo lo statalista Casini. Anche quando il livello sale di scala e di grado – all’inizio per la verità – e si parla di Europa e di rapporti con la Merkel, non si riesce a capire che Italia saremmo: chi fa appello all’orgoglio nazionale, chi si tiene il patto di stabilità tout-court (Renzi), chi se lo tiene con qualche ma (Bersani e Tabacci), chi lo butta via senza se e senza ma (Vendola). Quando si chiede un pantheon, due su cinque, Vendola e Bersani, si aggrappano ai grandi carismi religiosi di Carlo Maria Martini e di Papa Giovanni, mentre Renzi si gioca Nelson Mandela e una blogger della primavera araba.
La formula, in effetti, era nemica dell’approfondimento e premiava il ritmo. Renzi, in questi ritmi all’americana, è sembrato più a suo agio e preparato degli altri, ma a poco servirà la preziosa idea di Sky di fare per la prima volta Fact Checking, perchè dai fatti tutti si sono tenuti rigorosamente lontani, evitando di dire quali tasse taglieranno davvero e come, quali spese vanno eliminate, quali misure la loro coalizione (su questo son stati tutti naturalmente precisi) prenderà davvero.
E così, nel finale di partita, il dubbio in chi scrive è che questo dibattito non servirà a cambiare il destino di queste primarie. E ad uscirne rafforzato, una volta di più, è chi con fatica sui numeri e le cose opera ogni giorno, con tutti i se e i ma del caso, cioè Mario Monti.