Post SilvioInsicura e senza un progetto: così vota l’America

Insicura e senza un progetto: così vota l’America

NEW YORK – Mentre ti parlano della competizione elettorale arrivata finalmente al suo epilogo, tutti in un modo o nell’altro arrivano allo stesso nodo, alla stessa parola: “ansia”. No, l’ansia non è quella di chi attende spasmodicamente di sapere chi sarà il vincitore tra Romney e Obama, non è ansia da risultato del voto – che resta assai incerto – da confrontare con le risposte dei sondaggi.

«Mette un sacco di ansia accorgersi che siamo più poveri, economicamente e culturalmente. Che i nostri figli non staranno meglio di noi e che a migliaia i giovani escono dai college ma, invece di trovare un lavoro che non c’è, si iscrivono a nuovi corsi, continuano a studiare, perché per loro non c’è niente da fare», racconta Robin Crossman, imprenditrice e manager del Michigan. E mentre quelli che hanno studiato, investendo risorse propri o lunghi mutui scoprono che per i loro titoli di studio c’è posto solo nelle bacheche di famiglia, «il nostro sistema bancario sta trascurando drammaticamente il finanziamento e il sostegno delle piccole e medie imprese».

Son parole di una imprenditrice americana ma somigliano tanto alle vibranti denunce che sentiamo spesso, ora in drammatica buona fede ora in deprimente mala fede, nel nostro paese. «Ma capisco anche che è drammatico dover scegliere, in epoca di risorse scarse, tra il sostegno alla Chrysler che genera un indotto da milioni di posti di lavoro e un taglio delle tasse a sostegno di piccole imprese, artigiani, commercianti che sono poi quelli che fanno il tessuto dell’economia quotidiana negli Stati Uniti».

In pochi passaggi, e nello specchio dei dati economici snocciolati con regolarità, emerge lo spaesamento di intere generazioni. «Già, con quella dei babyboomers nati subito dopo la guerra che vanno l’uno dopo l’altro in pensione, ma i loro posti non sono di nessuno, nessuno li occupa né li occuperà perché quell’economica, quel modello non c’è più, non tiene più»

Quel modello, già. Un’idea di sviluppo lineare, infinita, che incrociava i cicli e gli alti e bassi che le economie da sempre conoscono, ma che mai – si pensava – avrebbe incontrato un tratto di cesura, una rottura e una crisi di modello radicale. «Ed invece è proprio quello che è successo: non siamo semplicemente dentro a un ciclo negativo, siamo piuttosto a un passaggio epocale, secolare» spiega Daniel Alpert. Banchiere d’affari da trent’anni, fondatore e leader di Westwood Capital Market, ma anche autorevole commentatore per i grandi giornali americani e scrittore da grande casa editrice, guarda la Manhattan della finanza globale negli occhi, dall’altro del suo 33esimo piano sulla quinta strada, tra un viaggio in Sudamerica e uno in estremo oriente.

«Dovremmo imparare dal Giappone, noi americano e voi europei: non hanno avuto paura di vedere calare gli stipendi, a patto che calasse anche l’inflazione, così hanno difeso la forza della loro moneta e la forza della loro economia. Certo, questo funziona in una società cooperativa e che sente uno spirito nazionale vero: da noi e da voi… beh, lasciamo perdere». Sull’America snocciola numeri che effettivamente fanno impressione. «Dovremmo per cominciare smetterla di parlare di una disoccupazione americana all’8 per cento, perché è molto più alta». Prego? «Certo, che senso ha parlare di quel dato senza considerare che i sotto-occupati sono circa il 14%. E in quel 14% non ci sono solo lavoratori da venti ore la settimana, ma ce ne sono tanti che lavorano venti ore al mese, o cinque ore al mese… vogliamo dire che lavorano e fare finta che vada tutto bene? La sostanza non cambia, quelli sono disoccupati».

L’angoscia, l’ansia che raccontano in tanti guardando a un paese che ha la sfida nel sangue e il successo sempre sulla linea dell’orizzonte da raggiungere, riporta dritti a queste elezioni. Anche il fatto che ci siano così tanti stati davvero in bilico, come mai prima, fa capire il senso di disorientamento: quasi che fosse un dato assorbito e condiviso che la politica non basta. «Obama ha fatto mille errori, e scontentato tantissimi obamiani, eppure secondo me Romney riuscirà a perdere egualmente…»: e chissà quanti decideranno di non andare a votare…

Assomiglia a quel clima che da noi si chiama antipolitica: e colpisce di ritrovarlo, così diverso eppure così assonante, in un paese in cui i partiti sono ancora una cosa seria, solida, che seleziona in maniera stabile e regolare la classe dirigente e regola in modo nitido i rapporti con le lobby e gli interessi rappresentati. In un posto dove lo stato fa lo stato e la società fa la società. «Quel che ci manca» prosegue Alpert «è un piano di lungo periodo, un disegno capace di guardare oltre le contingenze, come quello che fu di Roosvelt nel ’29». Giusta ambizione, anzi: evidente necessità. Ma di chi è la colpa se questo scenario lungo e coraggioso è mancato?

«Vedi, è strano, ma in qualche modo abbiamo pagato il nervosismo e le insicurezze del primo presidente afro-americano della storia, quasi un suo bisogno di legittimazione di fronte al mondo e al paese. Nel ‘29, quando al timone c’era Roosevelt, c’era un olandese: uno di quelli che aveva fatto New York, uno che era qui prima di tutti noi e non doveva chiedere il permesso a nessuno».

Già, e poi il tasso di complessità dei problemi e l’interconnessione delle economie non rende le situazioni paragonabili, e proprio l’America che ha inventato il capitalismo globale, le crisi e le soluzioni, si trova senza armi. «Purtroppo non possiamo svalutare, o ritornare ad essere protezionisti andando dai cinesi e dirgli che gli accordi del Wto e l’apertura globale dei mercati sono stati uno scherzo» ride, pensando a quei «tre miliardi di lavoratori a basso costo che stanno fuori di qui, non a casa vostra e né a casa nostra» e che continueranno a generare una crescita vorticosa nei loro paesi, almeno se comparata alle fatiche della vecchia Europa e di questa America che, ormai, non ha più il coraggio di chiamarsi il “nuovo mondo”. Tanto che, nelle parole di un americano che “ce l’ha fatta” come Daniel emerge in modo chiaro, disarmante e onesto, l’assenza di nuove ricette. E poi butta un occhio sull’Europa che merita di essere riportato, al lettore europeo. «Certo che voi in Europa siete strani, voi e la vostra unione bastarda…». Cioè? «Beh, siete uniti, ma poi la Germania non vuole condividere fisco e cassa con la Grecia. Che senso ha? Noi con gli stati poveri lo facciamo sempre, da sempre, la nostra Grecia si chiama Alabama, Arkansas, Mississippi… Ce li abbiamo, trasferiamo risorse e non passiamo il tempo a lamentarci…».

Peter Tchir, broker e merchant banker canadese ormai trapiantato a Manhattan spiega in parole semplici, classiche, che a lui piace uno stato leggero, con poche tasse, e sicuramente meno tasse di quelle che ha messo il presidente in caccia della riconferma. «Insomma, tendenzialmente sarei repubblicano, ma…». Ma? Non voterà certo per quel mezzo socialista di Obama? «No no, per carità, però sono anche ben cosciente che se anche vincesse Mitt, cosa mai potrebbe cambiare o fare di davvero, radicalmente diverso. Sì, forse allenterebbe un po’ la presa su chi, in questo paese, di più si impegna per generare benessere, ricchezza e lavoro ma non credo che potrebbe disegnare un’altra America né un altro mondo in tempi». Anche chi è abituato a operare ai ritmi frenetici delle transazioni sui mercati di tutti i fusi orari, anche chi scommette freneticamente è costretto allo sguardo alto, lontano dalla quotidianità: «Ci vorrà tempo, tanto, prima di trovare la nuova misura, la nuova normalità, il nuovo equilibrio»

Forse, al fondo di tutto, e alla base di uno spaesamento che ammette il perdurare della crisi, la classe dirigente americana e newyorkese, quella che si considera il cuore di una capitale che non è capitale amministrativa ma culturale, economica e avanguardia sociale, ha in fondo capito una cosa: i destini del mondo si giocano (anche) altrove. È finita l’era in cui l’ombelico del mondo stava qui, e in questa faticosa vigilia di Obama questa nuova, inattesa, certo non facile “perifericità” si sente tutta. C’è l’Europa, con la sua confusione di identità politica ed economica che quaggiù sembra difficilmente decifrabile, ma certo conta, tanto che – addirittura – una “piccola” azienda italiana indossa l’abito della salvatrice di un colosso che ha fatto la storia degli Stati Uniti, quel’è Chrysler. Ci sono le tigri asiatiche, che questa volta ruggiscono davvero, con tanto fiato ancora da spendere, e quando “rallentano” crescono del 5% l’anno. C’è un mondo intero, insomma, là fuori che considera gli Stati Uniti un attore importante, centrale, ma non più l’arbitro dei destini di un mondo.

È così, con questa strana sensazione di un destino tutta da scrivere, che l’America va a votare, oggi. Chi vincerà è importante, naturalmente. Ma la vera sfida, per tutti, sarà ridarsi un progetto degno della storia e della missione storica di un grande paese. Yes, We can? Vedremo: il bello della storia americana è che il domani da queste parti è sempre una frontiera da varcare, dimostrando al mondo che si può fare meglio rispetto a ieri. Stavolta, indubbiamente, la partita è più difficile, ma a chi ha ridefinito occidente e modernità nessuna partita può sembrare troppo grande. O no?  

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