Post SilvioLa solitudine di Renzi, l’unico che ci ha provato

La solitudine di Renzi, l’unico che ci ha provato

Due Italie, due paesi, due lingue. E dire che Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi son divisi solo dalla piccola dorsale montana degli Appennini. Eppure, a sentirli stasera, sembravano due che venivano da pianeti diversi, pur dicendo in gran parte cose sovrapponibili, e di certo mai davvero conflittuali. Non li divideva la chiarezza di idee, ricette, spiegazioni diverse della realtà. A renderli chiaramente diversi, semplicemente, crudamente, sono sembrate anzitutto le generazioni.

Con l’eccezione dell’accordo fiscale con la Svizzera – che Bersani rifiuta con ottime ragioni (e non è un dettaglio) – su tasse, pensioni, mercato del lavoro, urgenza delle risposte ai temi dei potenzialmente infiniti conflitti d’interesse del paese, Renzi è sembrato avere idee meno mediate, più nette e – dato il contesto – necessarie. Ma soprattutto ha ricordato a tutti di avere un oggettivo vantaggio: non ha il fardello del passato e di vecchi patti generazionali da rispettare, e fa bene a ricordare quel lungo elenco di cose non fatte o fatte a metà dal centrosinistra di Bersani. Il sindaco è in fondo tornato rottamatore, si è rimesso l’abito che gli ha consentito di arrivare fin lì, e ha ripetuto, ogni volta che poteva, che Bersani aveva avuto la sua chance, ed era andata com’era andata. Ha convinto, il sindaco fiorentino, quando ha provato a presentare le sue ricette di riforma? Sì e no, ma è sembrato davvero uno che ci sta provando, anche a formarsi e a confrontarsi con un mondo che cambia. Un mondo di cui è parte. Certo, Renzi nei tempi tv ci sta bene, con candida furbizia: e forse è anche per questo che Bersani continua ad agitare uno spauracchio di Berlusconi che fa paura – almeno a chi scrive – quanto uno spaventapasseri.

Il dibattito scorre via senza veri intoppi, qualche battuta da persona normale di Renzi, e un volo d’uccello veloce – di fatto mai neanche acceso – su tutti i temi di fondo. Da un’Europa schivata con un paio di slogan, ad attacchi e difese sulle ere di un D’Alema mai citato; da un Bersani che rivendica il buon lavoro in quei due lontani anni di governo, a un Renzi che ricorda il tanto non fatto. E snocciola ricette facili, veloci e comprensibili, con qualche dettaglio tecnico. Individua sempre bene il nemico, Renzi: chiama i burocrati burocrati, mette sud e “vizio delle raccomandazioni” nella stessa frase. Dice di no a Casini e all’Udc siciliana di Cuffaro (lungamente alleata di Bersani nell’Isola, ndr), e sembra sacrosanto. Bersani arretra, incassa infastidito a tratti, ma non perde mai il controllo. Ma di programmi e affidabilità delle squadre in campo, ne sappiamo quanto prima. Di quali ricette adotterebbero nel concreto, di come contratterebbero in Europa, di quali progetti di tagli alla spesa inutile e alle tasse si doterebbero… I temi sono tanti, le risposte da analizzare poche.

Nel caso di Renzi, si può almeno scommettere con ragionevolezza sull’idea di una classe dirigente tutta da inventare e quindi necessariamente aperta a risorse ed energie che stanno nel mondo. Nel caso di Bersani, diventerà invece una corrente di renziani o simili che arriva in parlamento. Ma, insomma, il dibattito non sembra aggiungere conoscenze fondamentali sui due candidati, anche perché non li abbiamo visti mettersi sotto stress con parole come Penati, Mps, Telecom, Unipol, “regole per le primarie” e semmai – se davvero ritenete – Arcore. In generale, è Matteo Renzi che rinuncia a giocare ogni carta di affondo potenzialmente sanguinoso a propria disposizione.

Pochi programmi e niente vere polemiche, dunque. Quel che invece si è visto, su Rai Uno, sono  due paesi. Due figure di italiano divise dalle generazioni. La lingua di Bersani, quella lingua di buonsenso di vecchia Italia che chiede scusa al parroco defunto, la lingua che attira l’endorsement di Guccini, ha riferimenti rispettabili, ci mancherebbe altro: ma che parlano di un passato che non tornerà. Renzi gioca la carta del nipotino bravo che voleva bene alle maestre, ma sono altri i momenti in cui è se stesso e convince. Quando, ad esempio, ricorda le proprie responsabilità a chi ne ha già avute tante, e non ha preso per mano un paese che ne aveva bisogno. Quando sorride bonariamente del parroco, e quando ricorda il tempo traumatico in cui D’Alema governava con l’appoggio di Cossiga e Mastella. 
E d’altro canto, Bersani, non può essere imputato di colpe davvero più grandi di lui, anche perché è davvero sempre sembrato uno che ce la metteva tutta.

E insomma, ancora una volta, sembra di credere che questo secondo e in teoria decisivo dibattito non ha cambiato la storia. Del resto, in questo paese le Italie son davvero due. Anzi, son tante di più. Quella che si riconosce in Bersani, che si affiderebbe ancora a lui dovendo scegliere rispetto a Renzi, è forse davvero divenuta minoritaria. Ma non alle primarie del centrosinistra, non con queste regole, su cui peraltro il sindaco ha lasciato correre una battaglia sacrosanta. Al di là delle regole, tuttavia, anche stasera Renzi ha rinunciato a cercare l’affondo sui temi più spinosi, sui terreni più delicati per il proprio avversario. 

Forse Renzi è arrivato fin dove poteva. Forse, semplicemente, fin dove si sentiva. Ma ha dimostrato che le nuove generazioni, i nuovi interessi, le nuove sensibilità, se vogliono trovare spazio devono conquistarselo. Lui lo ha fatto e ha dimostrato che provarci si può, e anche che, per vincere, ci vogliono spalle larghe davvero, perché chi detiene il controllo non ha mai voglia di lasciarlo. Perderà, con ogni probabilità, perché la passione della militanza politica, per quelli della sua Italia, è merce assai più rara che nell’Italia di Bersani. E non solo per colpa di Bersani, ma anche nostra. In fondo, Matteo Renzi, paga la sua assurda solitudine. In un panorama politico immobile da decenni è l’unico che ci ha provato, e questo gli vale un doveroso salvacondotto sugli errori, le ingenuità, le mancanze di strutture che nel mezzo dei trent’anni può capitare di avere se ti candidi di colpo a premier. L’Italia sembra stupirsi del fatto che che lui esista, e che mobiliti tante persone partendo da zero: e invece dovrebbe sorprendersi del fatto che, di Renzi, ce n’è in giro uno solo. 
 

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