La Ue vuole il veto sui nostri conti, Monti dice no e il Pd?

La Ue vuole il veto sui nostri conti, Monti dice no e il Pd?

Al Consiglio europeo del 18 e 19 Ottobre, il nostro governo si espresse contro la proposta del governo tedesco di sottoporre i bilanci nazionali a un veto europeo. Cercherò di dimostrare che questo fu un errore, seppure difficilmente evitabile, e di indicarne l’origine. La proposta tedesca è semplice. Il suo scopo è garantire il rispetto delle regole europee che vincolano la politica di bilancio degli stati membri, vietando deficit e indebitamenti eccessivi. Il veto interverrebbe prima che i governi presentino il progetto di bilancio al proprio parlamento e imporrebbe loro di ridurre il deficit programmato, lasciandoli però liberi di scegliere come tagliare la spesa o aumentare le entrate. Affinché il veto sia credibile questo potere sarebbe affidato alla Commissione Europea, ma alla valutazione dei bilanci nazionali parteciperebbe anche il Parlamento Europeo in modo da assicurare la legittimità democratica della decisione.

Questa soluzione – che completerebbe e in parte supererebbe il sistema disegnato dal “six-pack” del 2011 e dal “Fiscal Compact” del Marzo scorso – segnerebbe una radicale innovazione rispetto al patto di stabilità legato al trattato di Maastricht, le cui regole fiscali erano protette da pesanti sanzioni decise ex post da un organo, il Consiglio europeo, dove siedono i governi e che quindi opera mediante compromessi tra i loro rispettivi interessi nazionali. Nonostante le violazioni siano state numerose, quelle sanzioni non sono mai state applicate e le regole del patto hanno perduto la loro credibilità: ecco perché il governo tedesco propone ora un veto, esercitabile ex ante da un organo che agisce nell’interesse europeo e in autonomia dai governi.

La proposta tedesca però è incompleta – come sostengo in un articolo appena pubblicato da Policy Network – perché un veto tendenzialmente automatico non priverebbe gli stati membri solo del diritto di essere irresponsabili, ma anche della possibilità di attuare forti politiche di stimolo in risposta a una recessione o a shock asimmetrici simili a quelli osservati in questi ultimi anni.

Per quanto si possano affinare le regole fiscali, infatti, esse non potranno mai essere sufficientemente flessibili da permettere quelle politiche di stimolo, e insieme sufficientemente rigorose da garantire la credibilità del veto e spingere i governi a migliorare la qualità e la flessibilità della spesa pubblica. Di conseguenza, in parallelo al veto sarebbe necessario avere un bilancio comune – alimentato da risorse proprie e titoli di debito – che sia in grado di finanziare le misure anticicliche che eccedano le regole fiscali: una forma di “transfer union”, che opererebbe in modo non molto dissimile dalle attuali politiche di coesione. Il bilanciamento tra il veto e quella transfer union risponde a ragioni strutturali prima ancora che politiche, perché gli stati membri non possono privarsi della possibilità di far fronte a una seria recessione mediante la leva fiscale.

Del resto, se il veto e le regole fiscali impedissero ai governi di reagire efficacemente a gravi shock asimmetrici, la pressione politica e sociale che ne deriverebbe potrebbe essere tale da travolgere il veto. Senza una transfer union, paradossalmente, il veto darebbe luogo a un sistema altrettanto instabile di un’unione monetaria non sostenuta da un’unione politica.

Naturalmente, la transfer union richiederebbe una forte e diretta legittimazione democratica. Ancor più del veto, perché risorse comuni potenzialmente ingenti sarebbero impiegate a beneficio di singoli stati membri: il controllo sulla politica dei trasferimenti, se non le singole decisioni, dovrebbe essere affidato a un organo che rappresenti direttamente i cittadini. Ma siccome il Parlamento Europeo non pare ancora in grado di svolgere questo compito, la creazione del veto e della transfer union richiederebbe anche una riforma di questa istituzione, delle sue elezioni e dei suoi rapporti con la Commissione e il Consiglio. La quale stimolerebbe, in parallelo, la graduale emersione di partiti politici genuinamente europei e di un elettorato europeo.

È quindi evidente che accettare di discutere la proposta tedesca equivale ad avviare un negoziato sulla nuova architettura dell’Unione europea. Ed è altrettanto chiaro che il veto, la transfer union e la riforma della legittimazione democratica delle istituzioni comuni darebbero luogo a un nucleo di unione federale; che è anche la condizione affinché nasca una vera politica estera e di difesa comune, capace di proiettare l’influenza dell’unione al di là del campo della gestione del commercio e dell’economia mondiale. Ciò risolverebbe la crisi della zona euro, facendole riacquistare autonomia rispetto ai mercati, e rafforzerebbe la democrazia, la pace, la prosperità e le conquiste sociali dell’Europa, e la sua voce negli affari internazionali.

Partendo dal veto, quindi, si arriverebbe finalmente a discutere del cuore politico della crisi. Lo confermano gli argomenti con i quali il presidente della Bce ha spiegato il proprio convinto sostegno per la proposta tedesca: ulteriori cessioni di sovranità sono necessarie, ha dichiarato Draghi, sia per ristabilire fiducia nell’unione monetaria sia per riacquistare, collettivamente, quella sovranità che gli stati membri hanno individualmente perduto nei confronti dei mercati.

Riorganizzare in questo modo la sovranità dei cittadini europei corrisponderebbe pienamente al nostro interesse nazionale: nessuno in Italia sosterrebbe il contrario, ad eccezione forse di un ex comico genovese e di un altrettanto comico ex primo ministro. Per quale ragione allora il nostro governo ha rifiutato la proposta tedesca e le prospettive che essa apre?

Il presidente del consiglio lo ha spiegato a Repubblica. Bisogna premettere che la stampa aveva scritto che Berlino vuole affidare il veto a un “supercommissario”, che diverrebbe ancora più potente del Commissario alla concorrenza. In realtà, chi eserciti il veto – se debba essere il Commissario all’economia o tutta la Commissione, mediante un voto – è un aspetto inessenziale: ciò che conta è che il veto sia affidato a un organo che agisca autonomamente dai governi e nell’interesse europeo. E invece il presidente Monti ha spiegato che «la tesi che il supercommissario all’Economia dovrebbe avere gli stessi poteri del commissario alla concorrenza […] non sta in piedi perché con la riforma fatta ha già poteri maggiori rispetto al commissario alla concorrenza»: una risposta che appare elusiva, perché è presumibile che egli sappia che la proposta tedesca è il veto e non il “supercommissario”. Chiedersi perché il presidente del consiglio – che pure ha sempre sostenuto, e onorato col proprio lavoro, le ragioni dell’integrazione europea e del metodo comunitario – abbia rifiutato quella proposta può forse aiutare a correggere la linea italiana.

Le ragioni sono probabilmente tre. Le prime due sono comuni ad altri governi: essi sono ora impegnati nel negoziato sull’unione bancaria – su alcuni aspetti della quale esistono forti perplessità tedesche – ed hanno lasciato cadere la proposta del veto anche per rafforzare il proprio potere negoziale nei confronti di Berlino. Una scelta squisitamente tattica, resa possibile dal fatto che la relativa calma che è scesa sui mercati grazie alla Bce ha consentito loro di rinviare la discussione sulla riforma dell’Unione Europea.

La terza ragione è che questo governo non è in grado di impegnare il paese sulla riforma dell’Unione perché – come scrissi su Linkiesta l’estate scorsa – gli manca il tempo, la credibilità e la legittimazione necessari: questo mandato non gli è stato conferito né dall’elettorato né dal parlamento, che non ha neppure seriamente discusso il tema dell’integrazione europea. E quindi l’Italia – che pure è europeista e ha più interesse di altri paesi a spingere per una soluzione federale – si è allineata alla posizione di chi è invece contrario a ulteriori incisive cessioni di sovranità, vuoi per un diffuso sentimento sovranista vuoi per salvaguardare il potere dell’élite politica nazionale.

La proposta tedesca fu resa pubblica pochissimo tempo prima del vertice di Ottobre, ma tutto lascia credere che non fosse un diversivo: essa fu formulata dall’influente ministro delle finanze, sincero europeista che già aveva proposto l’elezione diretta del presidente della Commissione; fu fatta propria dal governo di fronte al parlamento, e poi sostanzialmente condivisa dall’opposizione; ha ricevuto il deliberato pubblico sostegno della Bce; e risponde alle aspirazioni e agli interessi dell’elettorato tedesco. La sua incompiutezza riflette una lungimirante apertura al dialogo piuttosto che scarsa convinzione.

Quando sarà riproposta, l’interesse nazionale vuole che il nostro governo la sostenga con convinzione, anche a prezzo di sacrifici tattici, per poi acquisire un ruolo di mediazione tra la posizione tedesca e quella francese, che pare l’ostacolo maggiore a ogni prospettiva federalista. Non mi riferisco a una mediazione diplomatica ma di contenuti: se l’Italia è vicina alla Germania sul tema della cessione di sovranità, è verosimile che sarà invece prossima alle posizioni francesi su temi quali la revisione delle regole fiscali – già sfiorato dal nostro governo, in base alle norme vigenti, con riguardo al trattamento della spesa per investimenti – e l’uso di possibili “Eurobonds”, a fianco della transfer union e dei titoli di debito emessi dal bilancio comune, per gestire il debito accumulato. 

L’Europa deve quindi essere un tema centrale della campagna elettorale. Perché sarebbe difficile discutere seriamente di politica economica e pressoché ogni altro tema di rilievo al di fuori della prospettiva dell’integrazione europea. Perché il nostro debito, la scarsa produttività della nostra economia e l’eredità di questi ultimi anni espongono noi e l’Europa a rischi considerevoli. E perché sull’integrazione europea è possibile formare una posizione nazionale condivisa dalle forze politiche non irresponsabili. Ciò rafforzerebbe la capacità del futuro governo di spingere in avanti il negoziato europeo, e sul fronte interno sarebbe anche una risposta efficace alle opzioni populiste che osserviamo.

Per la sua forza e le sue convinzioni sarebbe bene che fosse il Partito democratico ad aprire questa discussione, una volta chiuse le primarie. Aggiungo che fu la sua convinzione che «[l]a prossima maggioranza dovrà avere ben chiara questa bussola: nulla senza l’Europa» a spingermi, alla vigilia del primo turno delle primarie, al coraggioso gesto di auspicare la vittoria del favorito.

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