Dopo la vittoria di Obama, la crisi del partito repubblicano ha le sembianze di Jim deMint, sessantun anni, senatore del South Carolina, ideologo del Tea Party, intransigente oppositore di ogni compromesso con i democratici. Additato come uno dei responsabili della sconfitta elettorale, DeMint ha deciso di dimettersi dal Senato e di accettare la presidenza dell’Heritage Foundation, il più intransigente dei think tank conservatori. In questo modo otterrà due risultati. Da una parte vedrà crescere il proprio stipendio (da quelle parti i senatori guadagnano la metà dei colleghi italiani), dall’altra potrà impegnarsi nella rifondazione culturale della destra americana, uscita assai provata dalle ultime elezioni.
DeMint è il simbolo della crisi repubblicana perché non sa darsi ragione della debacle del 6 novembre. Nel dibattito sul fiscal cliff è schierato tra i duri: Obama chiede che le tasse aumentino solo per il 2% degli americani, quelli che guadagnano oltre 400 mila euro, ma lui è tra quelli che non vogliono cedere di un millimetro. Sostiene che Mitt Romney è stato sconfitto perché non è stato abbastanza intransigente sui principi, non si è battuto con sufficiente forza per la diminuzione delle imposte, lo Stato leggero, il taglio del welfare e i valori tradizionali del paese, cioè la libertà individuale e il lassez faire. In parole povere: non è stato abbastanza di destra.
Un simile abbaglio capita spesso (anche dalle nostre parti) a chi confonde l’ideologia con la realtà, e questo è il problema dell’ala più intransigente (e forse maggioritaria) del partito repubblicano, che respinge ogni compromesso (sia sul fisco sia sulla libertà di acquistare armi, per esempio) e sta portando il partito in un vicolo cieco. DeMint – e con lui l’ala radicale del partito – dice di amare l’America, ma forse ama l’America del bel tempo che fu, quando gli elettori erano quasi tutti bianchi, la stragrande maggioranza si sposava con rito religioso, le coppie conviventi erano una rarità e le minoranze non erano determinanti ai fini elettorali.
La crisi del partito repubblicano, che proprio in questi giorni sta paralizzando il Congresso, non giunge inaspettata. John Judis e Ruy Teixeira l’avevano prevista in un libro pubblicato nel 2002 (“The Emerging Democratic Majority”), nel quale descrivevano con spietata accuratezza le ragioni demografiche e culturali che avrebbero messo nell’angolo una destra sempre più intransigente. Questo non significa affatto che il partito democratico conquisterà stabilmente la Casa Bianca e la maggioranza al Congresso. Ma solo che i repubblicani dovranno modificare in modo sostanziale la loro cultura politica se non vorranno diventare stabilmente una forza di minoranza. E questo perché l’America del loro immaginario non esiste più per diverse ragioni. Partiamo da quelle demografiche.
Per dare un’idea di quello che è accaduto negli ultimi trent’anni basti pensare che nel 1980 (quando Reagan salì alla Casa Bianca) i bianchi rappresentavano l’88 per cento dell’elettorato, mentre oggi sono scesi al 72%; gli ispanici, che erano solo il 2%, oggi sono oltre il 10%.
Gli Stati Uniti sono ormai la somma di minoranze e questo è destinato a cambiare le carte in tavola non solo per il partito repubblicano, ma per tutta la politica. (Ed è un’anticipazione di quello che sta accadendo in Europa, e in particolare in Italia). Tra le minoranze Obama ha stravinto: 71 a 27 tra gli ispanici, 73 a 26 tra gli asiatici, 77 a 23 tra i gay, 93 a 6 tra i neri. Romney ha prevalso solo tra i maschi bianchi (59 a 39) e tra le donne sposate, due settori della popolazione in declino percentuale; le donne single e i giovani sotto i trent’anni hanno preferito Obama.
Non è un caso se l’uomo nuovo del partito repubblicano – a cui molti guardano per le elezioni del 2016 – è Marco Rubio, 41 anni, senatore della Florida, di origine cubana. Rubio è il campione della minoranza di origine ispanica e chiede una soluzione per gli oltre dodici milioni di immigrati che da anni vivono nell’illegalità. Nel suo primo mandato il presidente Obama non è riuscito a risolvere il problema, frenato dall’intransigenza repubblicana. Ma proprio quell’intransigenza è la causa principale della vittoria democratica tra gli ispanici (che nel 2050 toccheranno il 30% della popolazione). Molti analisti sostengono che se un candidato come Rubio proponesse un’amnistia per gli immigrati illegali sposterebbe verso i repubblicani la maggioranza del voto ispanico. Ma una simile piroetta programmatica cambierebbe i connotati culturali del partito. È pronta la base repubblicana per questa svolta? Difficile dirlo, anche perché ci sono altri problemi in gioco.
La crescita delle minoranze è destinata a pesare sulla cultura politica del paese nel suo insieme. La maggioranza degli americani continua a non guardare di buon occhio il “Big Government”, ma la cultura degli immigrati di origine ispanica e asiatica sta cambiando questo atteggiamento. Una recente ricerca del Pew Research mostra che i cittadini di origine ispanica e asiatica apprezzano il ruolo del governo assai più dei bianchi di origine puritana. E lo choc economico provocato della globalizzazione e della attuale crisi economica accentuano questo atteggiamento: perché rinunciare al welfare in tempi di crisi?
Ma i repubblicani hanno una posizione rigida sul Big Government. Quando Ronald Reagan conquistò la Casa Bianca (era il 1980) affermando che “il governo era il problema, e non la soluzione”, i ricchi pagavano un’aliquota del 70% sul reddito. Tra il 1981 e il 1986 Reagan la fece scendere al 28%, ma quella battaglia fu condotta in modo assai pragmatico e il presidente (nel corso dei suoi due mandati) aumentò le tasse in diverse occasioni, tutte le volte che lo riteneva necessario per affrontare i problemi di bilancio. I nipotini di Reagan hanno perso la duttilità del nonno, e hanno trasformato quella ricetta in un dogma ideologico. Vogliono svuotare le casse dello Stato con l’obiettivo di distruggere i tradizionali istituti del welfare: la sicurezza sociale, il Medicare e il Medicaid. Ma l’America di oggi non li segue anche perché il paese è cambiato in modo profondo.
Negli ultimi anni è cresciuta la percentuale della popolazione che dipende dall’aiuto dello stato: nel 1980 solo venti milioni di americani ricevevano buoni pasto dal governo, nel 2012 sono quasi 50 milioni; nel frattempo la popolazione anziana è aumentata a dismisura e l’assistenza sanitaria agli ultrasessantacinquenni è diventato un argomento intoccabile; nel 1980, quando Reagan salì alla Casa Bianca, le madri non sposate erano il 18%, oggi sono oltre il 40%, e molte di loro sono madri single. Non stupisce che tutta questa gente abbia bisogno del welfare per sopravvivere.
Anche le mutazioni socio-culturali soffiano nella direzione dei democratici. Il 52 % degli americani è ormai favorevole al matrimonio gay, oltre la metà dei giovani convive senza sposarsi, la religiosità è in caduta libera. Nel 1980 i “non religiosi” erano meno del dieci per cento, oggi sono oltre il 20% e solo una minoranza va a messa regolarmente. Le ricerche dicono che la popolazione laica tende a votare democratico.
I repubblicani dicono di amare l’America e di volerne difendere i valori costituenti, ma parlano di un paese che non esiste più. Quello evocato dai repubblicani – oltre a Dio, patria e famiglia – è il paese delle uguali opportunità, caratterizzato da una forte mobilità sociale verso l’alto. Ma oggi la mobilità sociale degli Stati Uniti è assai inferiore a quella di tutti i paesi del Nord Europa e ristagna a livelli simili a quelli di Francia e Italia. La crisi economica ha ridotto i redditi delle famiglie riportandoli al 1995, e quattro anni dopo il tracollo della Lehman Brother resta la sensazione collettiva che questa non sia una crisi come le altre. L’enorme aumento di produttività ottenuto con i tagli del personale e le massicce iniezioni di tecnologia non hanno portato alla crescita sperata dell’economia e dell’occupazione.
L’economista Jeffrey Sachs (sul Financial Times) sostiene che la politica oggi dovrebbe trovare ricette nuove per affrontare i tre grandi problemi che il mondo si trova di fronte: la globalizzazione, le tecnologie dell’informazione e il cambiamento climatico. Ma le ricette di Jim deMint – e del partito repubblicano – sono sempre le solite: meno tasse e stato leggero. Un po’ poco per il XXI secolo.