Romeo Frezzi, ovvero il caso Pinelli di fine Ottocento

Romeo Frezzi, ovvero il caso Pinelli di fine Ottocento

Quando Pinelli si chiamava Frezzi, Romeo Frezzi, si era nel 1897. Settantadue anni prima del tritolo nella Banca nazionale dell’Agricoltura, ma una decina di giorni dopo la coltellata a vuoto di Pietro Acciarito contro il re Umberto I. Frezzi è stato il caso Pinelli ante litteram. Non era un ferroviere, era un falegname. Non aveva 40 anni, era più giovane. Ma era un anarchico, come tre generazioni dopo lo sarebbe stato Giuseppe Pinelli. E se ciò bastava nel 1969, nei giorni cupi della strage di piazza Fontana, figuriamoci negli anni della selvaggia repressione antipopolare dei governi di fine secolo. Frezzi morì durante un interrogatorio, divorato dagli ingranaggi del potere. Come Pinelli.

Frezzi era originario di Jesi. Sposato, due figli, da qualche anno viveva a Roma in via Margutta. Ogni giorno era a bottega da Oreste Palmieri, era un “assiduo lavoratore” secondo il padrone. Forse non era nemmeno anarchico. Forse era repubblicano o socialista. Difficile nel magma del sovversivismo di quei tempi attribuire casacche precise, ma anarchico e per giunta “pericoloso” Frezzi lo era per la polizia. Un ribelle, un rivoluzionario da sorvegliare. In quell’epoca di pensiero e dinamite, se c’era una retata o una perquisizione toccava anche a lui.

E sarà così anche all’indomani del tentato regicidio. Il 22 aprile Acciarito, lungo la via Appia all’altezza di Pontelungo, si avventa contro la carrozza reale. Umberto I sta trottando verso Capannelle per assistere al derby, la più importante gara ippica dell’anno. Un’aggressione improvvisata, maldestra, disperata. Senza un graffio. Ma subito abilmente manipolata dal governo e dalle forze dell’ordine come tassello di una cospirazione anarchica. Agli occhi delle autorità, l’attentato altro non è che l’atto fallito di una trama insurrezionalista; non il gesto isolato di un fabbro in miseria ma la congiura di un partito eversivo. Fabbricare complotti e complicità è del resto il solito giochino del potere, c’aveva già provato con Passannante, ci proverà anche con Bresci.

A Roma la caccia agli anarchici e ai socialisti è immediata. Arresti, fermi, irruzioni, sequestri, interrogatori, allontanamenti. La questura monta zelantemente indizi, congetture, sospetti che la procura convalida senza ritegno. L’ondata reazionaria è impetuosa, i quartieri popolari sono passati al setaccio. All’Esquilino, dove Acciarito si arrabatta, si passa di casa in casa e di negozio in negozio. L’operazione di polizia è energica. Frezzi ci finisce in mezzo per una fotografia. Una semplice fotografia rintracciata perquisendo la sua abitazione: ritrae un gruppetto di estremisti. Lui non vi figura, ma Acciarito sì. I due in realtà non si conoscono, e tuttavia per la questura è la prova del complotto. Il 28 aprile, nel tardo pomeriggio, un agente lo preleva in bottega. Lui è pallido ma rincuora la moglie. Il poliziotto lo tranquillizza, è solo un chiarimento. “E così se ne andò e io non ho più visto il Frezzi”, racconterà in seguito a verbale il suo datore di lavoro.

Cosa accadde dopo l’arresto di preciso non si sa, possiamo però immaginarlo. Si sa che Frezzi, in assenza di un mandato del giudice, è condotto alle carceri di san Michele e che il primo maggio è interrogato. E il 2 maggio è trovato cadavere in cella. L’autopsia rivela un corpo martoriato: “Frattura in parte della scatola del cranio, frattura della spalla destra, frattura della colonna vertebrale con distacco completo e rottura delle costole, distacco e lesioni della milza e del pericardio”. Quasi certamente un pestaggio a sangue per estorcergli una confessione di complicità.

Tre invece le versioni successive della questura, contraddittorie e false. In principio si parla di suicidio, il giovane anarchico avrebbe battuto la testa contro il muro. Poi si ipotizza morte naturale per un aneurisma, infine si ritorna al suicidio: ma Frezzi, stavolta, avrebbe scavalcato la balaustra del balcone saltando giù nel cortile interno. Sarà la campagna dei giornali d’opposizione (tra tutti spicca l’Avanti) a smascherare la montatura denunciando responsabilità governative e della polizia. Ma non ci sarà alcuna vera conseguenza. Il presidente del consiglio, il marchese Antonio di Rudinì, si assumerà la piena responsabilità politica, il questore cambierà città, le guardie e i vertici saranno prosciolti per insufficienza di indizi e inesistenza di reato.

E il complotto? Una bolla di sapone. Nel novembre del 1897 la sezione d’accusa è costretta a dichiarare il “non luogo a procedere per difetto e insufficienza di indizi” contro i sette presunti complici. E tre anni dopo, in un secondo processo nato da una scandalosa macchinazione dei vertici dell’amministrazione penitenziaria, saranno assolti altri cinque anarchici.
 

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