Dentro o fuori dall’Europa? Gli inglesi potranno deciderlo (se vincono i conservatori)

Dentro o fuori dall’Europa? Gli inglesi potranno deciderlo (se vincono i conservatori)

Questa settimana David Cameron doveva vedersela con uno dei momenti più delicati del suo mandato da Primo ministro britannico, non solo perché l’appuntamento cade in una fase particolare per il suo governo, arrivato a metà del percorso, ma soprattutto per via dell’argomento in questione: i rapporti tra la Gran Bretagna e l’Unione europea.

Sono trascorsi quarant’anni dal primo gennaio 1973, il giorno che ha sancito l’ingresso del Regno Unito nell’allora Comunità economica europea assieme ad Irlanda e Danimarca: l’isola attraversava una profonda crisi economica interna, all’indomani della fine dell’impero e del conseguente ridimensionamento del peso internazionale di Londra, l’alternarsi dei governi conservatori di Edward Heath e laburisti di Harold Wilson si accompagnava a casse dello stato in rosso, proteste dei minatori, crisi energetica e riduzione della settimana lavorativa a soli tre giorni. Gli analisti dell’epoca dipingevano la Gran Bretagna come l’equivalente della Germania dell’Est del blocco occidentale.

Quarant’anni più tardi la situazione economica non è così tragica, nonostante il piano di austerity varato da Cameron e dalla sua spalla destra, il ministro George Osborne, ma nemmeno splende il sole sull’isola e la domanda è rimasta la stessa: qual è il ruolo dell’Inghilterra nel contesto europeo? Fuori dalla moneta unica, è solo un battere i pugni sui tavoli delle trattative e mettersi di traverso alla riforma dei trattati per una maggiore disciplina nella politica di bilancio, vedendosi negata la stretta di mano dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, stizzito dalla posizione di Cameron? C’è altro? Un po’ dentro e un po’ fuori, attenti a non concedere troppo all’apparato di Bruxelles, come ricordano le levate di scudo quando il diritto comunitario tenta di intrufolarsi nella common law. Storie in secondo piano rispetto al tema più gettonato, l’economia.

Cameron ha incontrato Angela Merkel e Mark Rutte, il collega olandese: la diplomazia prima della sostanza e, secondo le voci che arrivano da Westminster, nell’atteso discorso di domani il Primo ministro esporrà un piano perché alla Gran Bretagna vengano garantiti poteri precedentemente delegati all’Unione e che dovrebbe concretizzarsi nel biennio tra il 2017 e il 2018. Supposizioni che parrebbero – condizionale d’obbligo – trovare riscontri nelle dichiarazioni che Cameron ha rilasciato sia di fronte alle telecamere del programma Daybreak del canale ITV sia ai microfoni di Today, show di BBC Radio 4.

«Dobbiamo fermare la prepotenza di Bruxelles, ma rimanere nell’Unione», ha dichiarato. «Sono a favore dell’appartenenza della Gran Bretagna all’Unione europea. Siamo una nazione commerciale, abbiamo bisogno di accedere al libero mercato, ma non solo per vendere i nostri prodotti, piuttosto dobbiamo dire la nostra nelle regole di quel mercato». I rapporti vanno rinegoziati, specie dal momento che «l’Unione è cambiata per via della moneta unica», per quanto la nazione, è la scommessa del leader conservatore, sopravviverebbe a una remota ipotesi di uscita.

Un po’ di qui, un po’ di là: agli inizi della sua carriera politica Cameron era accompagnato dal nomignolo “flip – flop” e sul campo da gioco è come il difensore che si trova solo contro due avversari che inseguono la palla a metà via, indeciso se andare incontro al pallone o attendere. I guai, nel suo caso, giungono dall’interno. Alla ricerca di una rielezione con il suo partito che insegue i laburisti nei sondaggi (44 a 31%), non può fare affidamento sui deboli alleati di governo liberaldemocratici, quotati appena sopra la soglia psicologica del 10% e con il fiato sul collo del United Kingdom Independence Party di Nigel Farage (8%), che si richiama a posizioni liberiste e specialmente antieuropee e che raccoglie consensi tra l’elettorato conservatore più euroscettico.

Farage non è accreditato come prossimo alleato, nonostante gli ammiccamenti dell’ala più oltranzista dei Tories: tra l’altro, la scorsa settimana lo UKIP ha dovuto sbrogliare grane in famiglia, dopo l’allontanamento di alcuni esponenti che si erano detti a favore dei matrimoni gay, punto che Cameron ha più volte affrontato lui stesso con piglio favorevole. Farage inoltre pretende che il ruolo del Regno Unito in Europa sia sottoposto ad un referendum popolare che a sua volta Cameron aveva promesso durante la campagna elettorale del 2010, salvo tornare sui suoi passi (flip – flop).

Intanto Bruxelles lavora con Washington al free trade agreement, nel disperato tentativo di dare impulso all’economia continentale e all’occupazione. Almeno 5 trilioni di dollari tra investimenti e commercio navigano da una costa all’altra dell’oceano Atlantico ogni anno, l’equivalente del 54% del prodotto interno lordo mondiale. Nel 2011, gli europei hanno acquistato beni statunitensi per una cifra pari a 286 miliardi di dollari (tre volte tanto rispetto ai cinesi) e a loro volta hanno venduto negli USA merce per 368 miliardi di dollari.

Secondo uno studio della Camera di commercio americana l’eliminazione delle tariffe commerciali genererebbe un aumento negli scambi di oltre 120 miliardi di dollari entro cinque anni e un guadagno del Pil di 180 miliardi, dando fiato ad un mercato che impiega 15 milioni di lavoratori. Stando invece ai dati forniti dal governo britannico, gli Stati Uniti sono la principale destinazione delle esportazioni inglesi. Nel biennio 2010/11 i rapporti tra i due paesi hanno generato 36.400 nuovi posti di lavoro tra servizi e comparti tecnologico e scientifico e il volume commerciale del 2010 è stato stimato a 189 miliardi di dollari, con un aumento del 3% rispetto all’anno precedente.

Il free trade agreement sarebbe un toccasana per la Gran Bretagna e l’amministrazione democratica di Barack Obama ha già detto la sua, suggerendo all’alleato speciale di non abbandonare il circolo europeo. La voce del presidente americano è più forte di quella di Farage e dei malumori conservatori.

Dunque a Cameron tornerebbero utili le abilità di flip – flop: perché il regno rimanga nell’Unione, purché l’Unione accetti le richieste del regno – sarà un caso che durante l’intervista a Daybreak abbia discusso di riforma delle pensioni e politiche sociali? -– assicurando nuovamente agli elettori che i termini degli eventuali accordi verranno sottoposti a referendum, salvo specificare una data per la consultazione.

E se l’opposizione laburista usasse l’indecisionismo del governo per far leva sugli scontenti, Cameron potrebbe sempre ribattere che il suo leader Ed Miliband ha derubricato il referendum alla voce “materia non di interesse nazionale”. Il difensore in mezzo al campo aggredirà il pallone e servirà l’assist del contropiede o si accontenterà di spazzarlo in tribuna, guadagnando tempo? 

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