A fine giornata, un giorno prima di partire per gli Stati Uniti e pochi giorni dopo essere tornato dall’altro capo del mondo, l’amministratore delegato di Luxottica Andrea Guerra (uno degli 80 soci de Linkiesta) usa il grandangolo per parlare dell’Italia che si immerge in questa campagna elettorale. «Quando vedi l’Indonesia crescere a quei ritmi, e respiri là quella voglia di cambiamento e innovazione, beh… torni più motivato a fare bene qui, perché pensi che di spazio per crescere per l’aziende che investono ce n’è, eccome».
Al di là degli scenari globali, e dentro di essi, c’è un paese che non cresce, ed è l’Italia. L’osservatorio globale dentro cui state vi dà speranze per il paese che si avvia, tra l’altro, a un voto importante?
Da un punto di business e azienda è difficile per noi cominciare a ragionare guardando l’Italia. Iniziamo da altrove per arrivare poi al mediterraneo. Gli USA sono in buona salute, al di là di molti pessimismi. Quando gli Usa stanno bene vuol dire che il mondo è messo non male. E tolto il problema del debito i segnali Usa sono davvero molto buoni.Poi c’è un blocco di paese in forte crescita, e che continua ad andare molto bene e che ormai non sono più definibili come paesi emergenti. Pensiamo al Brasile, che è diventato il nostro quarto mercato, ed è l’unico dei nostri primi quattro che può raddoppiare nel prossimo quinquennio.Quando arriviamo in Europa, osserviamo anzitutto che il nostro continente non è tutto uguale. Abbiamo la Francia che ancora tiene, l’Inghilterra pure, la Germania e gli scandinavi ancora crescono. Quando guardiamo l’Europa mediterranea tutto cambia. In Italia abbiamo fatto +1%, ed è un miracolo dato il contesto.
Un contesto duro. Colpa di pesanti eredità strutturali, dice Monti. Colpa delle politiche recessive del governo Monti, dicono i suoi critici. Chi ha ragione?
Quando guardiamo all’Italia io sono tra quanti dicono che bisogna dire grazie a Monti. Mi sembra che gli italiani spesso abbiano la memoria corta, ed è evidente che si dimenticano la fine del 2011 e l’inizio del 2012. Che noi avessimo bisogno di una cura da cavallo non c’è dubbio. Adesso abbiamo bisogno di altro. E quando penso a questo penso a tre elementi su cui lavorerei: la cultura delle regole, il lavoro e la criminalità organizzata.
Come mai da capo di una grande azienda non parla della questione fiscale?
Il fisco non vive da solo, i valori della pressione fiscale non sono termini assoluti e semmai bisogna metterli in relazione alle ragioni per cui le facciamo pagare le tasse, e a causa di cosa.
Perché partire dalla cultura delle regole e non dalla loro riforma?
Perché la cultura della legalità in Italia non è proprio radicatissima, ma l’ultimo ventennio ci ha imbarbarito. Ci ha peggiorato. Per recuperare questo gap che non possiamo permetterci, bisogna partire assolutamente dalla scuola e dall’università. Occorre trovare e mettere qualche miliardo in più sulla scuola, dagli edifici al corpo insegnanti. Bisogna tirare fuori un’efficienza diversa dentro ai percorsi di formazione. È necessario avere degli indicatori di qualità della formazione, di quelli che esistano al mondo, e sarebbe utile che il sindacato una volta per tutte aderisca all’idea che serve dare qualità alla formazione italiana: è una priorità oggettiva, non può non essere anche la loro…
Troppo spesso anche la mia esperienza di genitore mi ha mostrato la qualità randomica dell’insegnamento, la scoperta di docenti straordinari quasi sempre precari, e un’indipendenza gestionale di queste scuole che non ha proprio senso. Dobbiamo trovare e stimolare la voglia di ricostituire le nostre generazioni future partendo dall’idea che le regole aiutano: aiutano l’esperienza, la crescita e perfino la capacità di rischiare, senza la quale non si cresce. Tra l’altro, pensateci, se riusciamo a riportare la cultura delle regola alla base dei percorsi formativi, eliminiamo di colpo molti alibi a un paese che spesso si nasconde dietro le cose che non vanno per non farle funzionare…
Parlavi prima di mafia e criminalità organizzata. Non proprio i protagonisti di questa campagna elettorale.
Già. Eppure prima di tutto bisogna davvero bonificare l’Italia, non si può continuare a fare finta che la ‘Ndrangheta non sia Milano, o che la Mafia non comandi gangli vitali della nostra economia. Mi dispiace riconoscere che non ho sentito una parola di Monti su questo negli ultimi dodici mesi, eppure il paese è soffocato dalla criminalità organizzata. È una delle cose che mi fa quasi essere invidioso della Spagna, che pure sta peggio di noi, ogni volta che ci vado: hanno mille problemi, ma non questo. E noi dobbiamo finalmente liberarcene.
Certo, costruire un patto elettorale attorno a questi temi significherebbe costruire un patto veramente nuovo. Non è velleitario?
Non penso. Se uno schieramento vince le elezioni ha davanti cinque anni, e se è bravo e governa bene ne ho addirittura dieci. E questo paese, nel bene e nel male, si può muovere in fretta. Ricordo come nel 1996 il governo di Prodi e Ciampi ha scelto persone, ha iniziato a fare riforme, ha smosso le acque prima di quel finale disastroso…
Parlavi prima del lavoro come terzo perno attorno al quale far ruotare un grande cambiamento.
Il lavoro secondo me è per strano che possa sembrare il più complesso dei tre nodi da sciogliere, perché noi siamo alla fine di una rivoluzione industriale. La tecnologia nel suo complesso fa sì che qualunque cosa facciamo servono molte ore di lavoro in meno che in passato. È un tema gigantesco: da un lato hai perso la voglia del rischio, e così molte aziende sono ferme immobili. Dall’altro, quella vecchia modalità di impresa sbatte contro un cambiamento di modello di sviluppo radicale.
E intanto le imprese falliscono, e spesso puntano il dito contro lo stato e le banche.
Certo. Bisognerebbe però vedere bene quante volte è un imprenditore che molla, che non vuole rischiare più, che vuole portarsi a casa quel che ha invece di scommettere ancora sull’impresa. E io sono convinto che il lavoro e l’impresa del futuro siano nelle mani degli imprenditori più che della politica: ovvio che il cuneo fiscale conta, ovvio che una tassazione intelligente aiuta, che più flessibilità può servire. Ma senza l’idea di investimento, sviluppo, rischio e scommessa sul futuro – parole dei veri imprenditori – non si va da nessuna parte. Luxottica ha investito 3 miliardi negli ultimi cinque anni, ma ad ogni livello dimensionale un’impresa deve potersi permettere di sbagliare di sbagliare, a patto di sbagliare avendo piani strategici che guardano nel medio periodo. In Italia, con aziende sempre sottocapitalizzate non ci si permette mai il rischio di sbagliare. E così non si cresce.
Parlavi dell’importanza di potersi permettere di sbagliare. Dove e quando come aziende avete commesso errori che però, in prospettiva, sono stati comunque importanti per capire quale direzione prendere?
Per esempio in Cina. Noi abbiamo deciso di entrare nel mercato cinese subito, deliberando di fare tutti gli esperimenti del mondo. Abbiamo fatto tutti gli errori da manuale, ma alla fine spendendo forse 15 milioni di troppo, dopo cinque anni siamo diventati i primi in quel mercato. Con un vantaggio nettissimo sui secondi.
Cosa manca di più all’Italia per prendere sul serio un piano di riforme che metta al centro il lavoro, la lotta alla criminalità e la cultura delle regole?
Manca la voglia di toglierci gli alibi e di nasconderci dietro di esse o di combattere l’atteggiamento distruttivo di chi, quando si parla di queste cose, fa spallucce considerandole noiose. Così, poi, ci ritroviamo con un ceto politico che si autoriproduce e non riesce nemmeno a fare una riforma della legge elettorale senza che nessuno si indigni. Come nessuno si indigna se Berlusconi fa il siparietto sulla sedia di Travaglio a Servizio Pubblico. Perché siamo assefuatti, pgri, un po’ annoiati e se qualcuno ci fa ridere noi lo guardiamo sempre con un occhio più benevolo…
Insisti molto sull’ultimo ventennio. Io sono uno di quelli che pensa che anche Berlusconi sia diventato un alibi, comodo, per molte incapacità. Non può essere tutta colpa sua, via.
Assolutamente d’accordo. Anche la nostra capacità di leadership è crollata. In fondo se stiamo bene, e i nostri figli vivono bene, allora non ci poniamo più le domande fondamentali, se no scapperemmo.
Sei conosciuto e riconosciuto, ti piace la politica. Hai mai pensato di farla?
Io credo che ognuno dovrebbe fare al meglio quel che sa fare.
Ci riprovo: ti hanno chiesto di salire in politica?
Chi sale in politica mi ha chiesto di salire in politica… Ma io penso che questo lavoro, con le nostre relazioni col sindacato, con il nostro welfare, con i nostri investimenti sull’innovazione sia fare politica e per questo ho declinato.
Monti di ieri ti piace e gli sei grato per la forza con cui ha preso in mano i problemi e la politica che non li gestiva. Quello di domani ti ispira la stessa fiducia?
Spero tanto che Monti stia ricostruendo un centrodestra, se questo succede, se domani Bersani e Monti sono gli avversari naturali allora siamo diventati un paese normale e sono ancora grato a Monti.
E invece governeranno insieme…
Il Pd ha perso una grande occasione con Renzi per prendersi un grande pezzo di elettorato deluso. Ad oggi ho l’ottimismo di pensare che non sarà un inciucio ma una grande sfida per ammodernare il paese.
La sua compagnia di politici e società civile, tutti in sella da decenni senza aver mai inciso, ti sembra davvero quella giusta per un piano di rinnovamento radicale?
(Sorride e tace)
Fare cose buone non è impossibile, anzi. Penso ad Ambrosoli che ha promesso che, tra le prime cose che farà da governatore, ha annunciato subito una task force coi rettori di tutti gli atenei lombardi per costruire insieme un piano di investimenti e rilancio. Ecco, questo genere di attenzione a me basta per dire: questo lo voto.