Più che un vero partito Fiat schierato con Mario Monti, un appoggio che nasce da una duplice convergenza-convenienza. Sono lontani i tempi in cui il Lingotto decideva le scelte infrastrutturali e di mobilità del Paese e faceva i governi della Repubblica. «Una volta ci misero in quota addirittura 8 ministri…», ha ironizzato qualche mese fa Cesare Romiti. Ma quel mondo è finito da un pezzo. Gli strappi di Sergio Marchionne hanno isolato la casa torinese dal resto del Paese, trasformando a torto o a ragione il Lingotto in una galassia divisiva, incapace di esercitare massicciamente i propri interessi dentro schemi concertativi e di scambio con il Paese. Però convergenze e convenienze sono evidenti e rappresentano una delle chiavi di lettura sotterranee di questa strana campagna elettorale: nomi, mosse e identikit di chi si presenta in lista o si agita intorno al progetto del premier, disegnano uno scenario chiaro. Concertazione e consociativismo sembrano diventati all’improvviso una delle grandi cesure elettorali.
Intanto, i simboli. Monti apre la sua campagna elettorale, prima ancora di annunciare la sua “salita” in campo, parlando allo stabilimento Fiat di Melfi seduto in mezzo a Marchionne e al presidente del Lingotto, John Elkann. Era il 20 dicembre. Comincia il giovane Elkann: «Oggi con Monti c’è una svolta epocale». Prosegue il manager italo-canadese: «Il nostro piano non è per deboli di cuore». Conclude il premier: «Oggi nasce un’Italia forte di cuore. Qui è nata la Punto, da oggi è Punto e a capo», chiosa in versione pubblicitaria, prima di celebrare il «coraggio dell’uomo che ha cambiato la Fiat», che poi non è altro che «il futuro che immaginiamo per l’Italia». E prima di sposare la sua lotta a chi è «arroccato a forme di tutele dei lavoratori che nel tempo hanno l’effetto opposto», a «chi rifiuta il cambiamento». Leggi, la Cgil.
Il discorso di Melfi è solo l’ultima tappa di un pregresso lungo tutto l’anno di governo Monti, segnato almeno da tre episodi. Il primo risale al 17 marzo 2012, quando a Milano, al convegno del Centro studi Confindustria (siamo in pieno negoziato della riforma Fornero sul lavoro e alla vigilia del viaggio in Oriente del premier), Monti gela la platea dichiarando che «chi gestisce la Fiat ha il diritto e il dovere di scegliere dove investire e le localizzazioni più convenienti». Un messaggio in bottiglia alla politica impaniata, alla Cgil dei veti e a quel pezzo di galassia confindustrial/concertativa che nel 2011 ha criticato aspramente l’uscita del Lingotto dall’associazione. Due giorni prima il premier aveva definito «illuminante e interessante» l’incontro con i vertici dell’azienda torinese. «Nel colloquio con il management Fiat – prosegue – mi sono convinto che tre cose sono importanti: la produttività, la flessibilità ma al primo posto c’è il rispetto. Non si può pensare che un’impresa debba essere oggetto di perenne scrutinio investigativo sulla politica industriale fatta da persone che su questo fronte non hanno nemmeno la competenza…».
Il secondo episodio risale a maggio, quando Monti non presenzia all’assemblea generale di Confindustria, edizione che segna il cambio della guardia tra l’uscente Emma Marcegaglia e l’entrante Giorgio Squinzi, mister Mapei, l’uomo che ha sconfitto in un testa a testa serrato Alberto Bombassei, endorsato da Marchionne («se vince Bombassei, Fiat potrebbe rientrare in Confindustria»), fornitore storico di Fiat con i suoi freni Brembo, membro del cda di Fiat Industrial nonché fresco candidato alle Politiche nella lista Monti.
Il terzo episodio risale al settembre scorso. Sono i giorni caldi dell’abbandono del piano Fabbrica Italia. Il mercato è crollato – dice Marchionne – sono saltati tutti gli indicatori su cui era costruito il progetto di investimento da 20 miliardi. Politica e sindacati protestano, il governo decide di convocare l’azienda per capirne le intenzioni. Dopo cinque ore di incontro a palazzo Chigi, il Lingotto s’impegna evasivamente «a salvaguardare la presenza industriale in Italia, grazie alla sicurezza finanziaria dovuta all’attività al di fuori dell’Unione europea, ma riorientando il modello di business in Italia in una logica che privilegi l’export». In realtà, proprio in quell’occasione, il governo si dividerà: il ministro Corrado Passera duro nell’incalzare Marchionne sui piani di investimento, le scadenze, le scelte aziendali e la rottura della concertazione; il premier molto più mansueto e filo Fiat.
Per questo Melfi non è un luogo a casaccio in cui inaugurare un percorso politico nel segno della discontinuità da protocolli sindacali che il premier giudica superati e dell’interesse ad agganciare una delle poche grandi aziende che, al netto delle polemiche su Fabbrica Italia, sta investendo in un Paese fanalino di coda per flussi di Ide (Investimenti diretti esteri) in entrata. Tra il 2010 e il 2012, su Pomigliano D’Arco e su Grugliasco, dove verranno fabbricate le nuove Maserati, Fiat ha comunque investito quasi due miliardi di euro. Un biglietto da visita minimo per un premier che ha fatto dell’immagine di una nuova Italia concorrenziale e aperta agli investimenti dall’estero un punto forte della sua agenda.
Marchionne, viceversa, ha l’esigenza di rilanciare in Italia (in 20 anni la quota di mercato di Fiat è scesa da oltre 50 al 29% mentre in Europa è sotto il 6%) dove sta tenendo gli stabilimenti mezzi vuoti e ha individuato in Monti, che garantisce la comunità politica e finanziaria Oltreoceano, la persona giusta con cui giocare di sponda. In chiave fusione con Chrysler, il manager deve dimostrare agli americani che la radice italiana ed europea non è un’entità impalpabile ma una fabbrica che fa utili e sforna finalmente nuovi modelli, dopo anni di immobilismo. Una Fiat debole in casa sua sarebbe un guaio per le ambizioni atlantiche del Lingotto.
Se queste sono le convergenze, la duplice convenienza sta invece nella possibilità molto più prosaica di dover strappare nuova cassa integrazione. Tra ottobre e novembre, durante il tavolo sulla produttività, il Lingotto ha chiesto altri ammortizzatori sociali. Molta cassa straordinaria sta finendo, serve quella in deroga. Dopo un 2012 chiusosi con un -20% sul mercato domestico – il peggior risultato degli ultimi trent’anni – e 32 milioni di ore di cassa all’interno del gruppo, a Cassino l’anno è cominciato con la cassa integrazione, a Melfi la si farà di nuovo a febbraio, Pomigliano e Mirafiori girano a scartamento ridottissimo. Ovvio che sarebbe più facile negoziarla con un Monti bis amico, piuttosto che con un agguerrito tandem Bersani-Camusso, amico della concertazione e freddo su Marchionne l’americano.
A sua volta la convenienza di Monti è quella di andare a braccetto con un’azienda guidata da un manager di successo internazionale, celebrato dall’Ft e da Obama, ideale passepartout per l’immagine del Paese. E che fa della modernizzazione nelle relazioni industriali un suo mantra.
Su questo sfondo, giocato direttamente al livello dei big, si collocano poi vecchi e nuovi intrecci di un rinnovato asse Monti-Fiat pronto a giocarsi la partita elettorale. C’è, ad esempio, chi ricorda i trascorsi dello stesso premier, amico personale dell’avvocato Agnelli, nel cda del Lingotto. Era il 1988 ed erano anni duri per la multinazionale dell’auto: bilanci in rosso e la guerra esplosa tra Umberto Agnelli e l’ad Romiti. Monti, che era anche nel comitato esecutivo dell’azienda, resterà in cda fino al 1993. Network, amicizie e fascinazione nascerebbero allora. Anche Enrico Bondi, scelto personalmente dal premier per tagliare la spesa pubblica nei mesi di governo tecnico e, adesso, passato a selezionare le candidature elettorali, ha lavorato a lungo nell’orbita Fiat. Nel 1991 è amministratore delegato della controllata Giardini Spa, dove conosce Romiti che farà da tramite con Enrico Cuccia, il suo mentore in Mediobanca. Ed è proprio a Bondi che l’avvocato nel 2003, sul letto di morte, pensa di affidare la Fiat sull’orlo del fallimento, prima che le banche creditrici lo stoppassero.
Dietro Monti e Bondi, l’incrocio con Torino continua con altri amici finiti in queste ore in lista con il professore. Due su tutti sono Ernesto Auci, ex direttore del Sole 24 Ore e per anni capo delle Relazioni Istituzionali del Lingotto e il già citato Alberto Bombassei, capo della linea filo Fiat dentro Confindustria. Da segnalare anche il movimentismo pro Monti dell’ex presidente di Fiat, Paolo Fresco, capofila vip di quella pattuglia che ha scommesso su Matteo Renzi e che oggi, con il sindaco di Firenze acquattato nel Pd, si rivolge al premier come alternativa ai due poli. Lo ha dichiarato apertamente sabato in una intervista al Foglio. E poi quello di Umberto Quadrino, fino al 2011 ad di Edison ma con un passato ai vertici di Fiat e una recente frequentazione con le riunioni dei montiani.
Discorso a parte merita ovviamente un altro campione dell’inner circle di casa Agnelli: il presidente della Ferrari, Luca Cordero di Montezemolo. I bene informati dicono che la sua influenza sul premier in queste settimane sia massima, tanto da averlo convinto a non sposare la strada della lista unica alla Camera. Suo è il network sul territorio, Italia Futura, messo a disposizione di Monti, infarcito di personaggi culturalmente borghesi per interessi, affinità e militanza, da Marco Simoni a Irene Tinagli, da Gianluca Susta a Carlo Calenda fino a Lelio Alfonso: in linea con Monti e in linea con la tradizione Fiat montezemoliana.
Dunque se un partito Fiat vero e proprio, per come ce lo siamo sempre figurato, non esiste più, spicca certamente un comune interesse a marciare insieme. Lo si vede bene su un ultimo aspetto decisivo. La raccolta fondi. Della cassa montiana se ne sta occupando, oltre a Bondi, proprio Orietta Palumbo di Italia Futura. Anche qui è il network del ferrarista Montezemolo a fare da collettore. L’obiettivo è raccogliere tra i 15 e i 20 milioni di euro. «Chiaro che una Fiat bisognosa di sponde – racconta chi sa – potrebbe scambiare un po’ di nuova cassa integrazione con un aiuto finanziario per la campagna elettorale…».