Fermiamoci un attimo. Guardiamo questa campagna elettorale come se non fosse la nostra. Come se venissimo ragguagliati “nel dettaglio” su di una campagna elettorale che si svolge però in un paese per noi straniero. Cosa vedremmo?
Berlusconi. Berlusconi. Vedremmo, ovunque, tantissimo Berlusconi. È lui, la sua immagine infinitamente vista, masticata, esecrata, venerata. Ormai terribilmente logora eppure capace di sparare gli ultimi colpi, gli ultimi fuochi di artificio della più grande macchina da consenso che la storia della politica italiana ricordi. Ma potremmo, di fronte a questa visione incontrovertibile, credere ad una sola parola che esce da quella bocca? Dopo questi anni, dopo tutto quello che abbiamo visto, capito, smesso di ascoltare? Dopo aver visto la promessa della rivoluzione liberale e antiburocratica infrangersi per sempre nei molti fallimenti della tragedia ridicola di questa legislatura che finisce, nessuno può davvero credere che, questa volta, se messo nelle condizioni, Berlusconi farebbe quel che ha sempre promesso. Non è infatti di questo che si parla. Non è di questo che si riesce a parlare, di fronte all’altissimo show televisivo offerto nello studio di Santoro.
Verrebbe anche voglia di accettare che la politica italiana non è (e non può essere) una cosa seria, e battere le mani al vecchio campione. Solo che il paese che proviamo a guardare da fuori, è proprio il nostro. Un paese che fatica a trovare una sua fisiologica normalità politica. L’ultima volta fu nella Prima Repubblica, poi ci son stati venti anni di anomalie continue e bipartisan e di una politica che ha finito con lo svilire ancora una volta il proprio nome: solo che almeno, nella Prima Repubblica, c’era un passato per qualcuno glorioso, forse solo almeno civile, da rivendicare.
Incredibile a dirsi, quel Berlusconi di cui dicevamo prima, prova perfino a cavalcare questa nuova onda di antipolitica, come lo fece allora. E poi sa che, ben oltre l’odio per la casta e i politici ladri, c’è un’Italia profondamente impolitica che ancora forma ogni sua “opinione” solo guardando la tv: si sta rimpicciolendo, certo, ma ancora esiste in numeri di milioni e milioni, e vota.
Riproviamoci. Proviamo a essere quell’osservatore terzo che – chissà come – è tanto appassionato da guardare alla campagna elettorale del 2013 per le elezioni politiche italiane. Di fronte al vecchio leone Berlusconi, che trova ancora il fiato per gli ultimi ruggiti, Mario Monti sembra pigolare. Fatica a emergere, forse proprio perché gioca un gioco radicalmente non suo. La mette un po’ in propaganda, e non ha proprio il fisico. La cosa più importante – e va detto a suo merito – è che non ha mai governato, in questo anno passato, come uno attento al consenso immediato e numeroso. Scelte impopolari c’erano da fare, e scelte impopolari e dure ha fatto, pensando nel medio periodo come a Palazzo Chigi non avveniva da un po’, e rappresentando gli interessi di coloro i quali lo avevano sostenuto in quella sua prima salita, certo. Ma innegabilmente anche quelli di un intero paese: nel mondo dell’economia globale e delle istituzioni sovranazionali, che interagiscono con la vita di famiglie e imprese, l’Italia aveva bisogno come il pane di credibilità, di rigore e di un governo che governi i processi. Lo riconosce in Contro-corrente, il libro curato da Peppino Caldarola, anche Massimo D’Alema. E sembra davvero difficile trovare un’obiezione.
Poi, un bel giorno, ci siamo trovati Monti sbattuto nel mezzo di una campagna elettorale, con alleati non proprio esaltanti, non proprio nuovi, non proprio irresponsabili dello stallo italiano. Monti in campagna elettorale, già, che campagna elettorale. Di Berlusconi, l’uomo che nel ’94 intravvide nel grigio e rigoroso Monti la persona giusta, abbiamo detto abbastanza. Bersani e il suo blocco, poi, si sentono davvero di fronte al gol che non si può sbagliare. Che è troppo facile per essere sbagliato. E anche troppo decisivo per non essere messo in rete. La tipica situazione in cui ci si innervosisce, soprattutto se sembra di ricordare che qualcosa di simile, non troppo tempo fa, è già successo.
Bersani e il suo partito arrivano all’appuntamento con una grande solidità di fondo, che risalta in particolare date le strutture politiche concorrenti, ma anche portandosi dietro tutto il peso delle transizioni non ancora iniziate, di un elettorato che pare rigenerarsi meno di una classe dirigente che si è dimostrata forte, scaltra e aperta davvero a possibile un ricambio. Nel merito, la sinistra di Bersani è quello che ci si aspetta da quel partito, date le condizioni di partenza: il segretario è un pragmatico che non esce dal solco delle tradizioni di riferimento; il confronto privilegiato con le parti sociali, messo in salvo il patto d’acciaio con la Cgil di Susanna Camusso, arriva a includere figure confindustriali e categorie produttive rappresentate. Il Pantheon si fa largo, e arriva perfino a ricordare certe ambizioni egemoniche della Prima Repubblica: dove erano però i democristiani, e non certo i comunisti, che provavano a costruire il “partito-tutto”.
È un Pantheon di un partito di sinistra europeo, con qualche conservatorismo in più, dovuto a qualche incrostazione ideologica, che in alcuni casi sembra indistinguibile dalle lunghe sacche culturali e pratiche di assistenzialismo e statalismo. Bersani ha perduto malamente per strada Ichino e quel che rappresentava (e chissà che entrambi non abbiano qualche rimpianto…), ma per chi si definisca di sinistra in Italia appare comunque una scelta sensata. Chi poi avesse particolare attenzioni ai temi e alle sensibilità più o meno liberal, più o meno sociali, più o meno di sinistra, dovrà mettersi a capire quali candidati, quali cv e profili gli offre il suo collegio. Il menù appare nel complesso omogeneo.
Ma per chi non è di sinistra, e vuole votare una proposta di governo liberal-conservatore, che offerta c’è, ci chiederemmo se fossimo l’osservatore esterno che cerchiamo di diventare? C’è, semplicemente, Mario Monti. Ci sono Grillo e i suoi derivati là sotto coi forconi. C’è la maratona televisiva di Berlusconi. Ci sono occasioni di voto di testimonianza, di protesta colta non in grado di cambiare gli equilibri, come l’opzione offerta da Fare – Fermare il declino. Ma soprattutto c’è, sull’orizzonte razionale, la coabitazione governativa-istituzionale tra Bersani e Monti. Che alternative avrebbe al votare quest’ultimo un elettore di centrodestra, o di centro, moderato, conservatore, liberale, e che sappia accettare – un atto di realismo sempre deprecato, eppure profondamente democratico – di dover votare “il meno peggio”? Probabilmente, nessuna alternativa razionale.
Non sarebbe in nome del programma che porta, fortemente zavorrato dai legami politici con cui lo presenta. Né sarebbe – appunto – in nome di una modalità politica nuova, né tantomeno in forza di un’inatteso carisma e capacità comunicativa. Sarebbe, piuttosto, in nome del ricordo complessivamente rassicurante di chi sia davvero Mario Monti, e di come naturalmente si muova, quando non sia costretto all’atto contronatura di una campagna elettorale.
E insomma, avvicinandoci al voto sarà bene valutare il candidato Monti oltre questa distorsione: pensando all’obiettivo di tenere tutti insieme a galla l’Italia, dandole finalmente una stabile normalità.