Banzi: “Basta rimpiangere Olivetti, così cresceremo”

Il padre dell’hardware open source Arduino parla a tutto campo

In un mondo aggrappato ancora ai tradizionali modelli di produzione e consumo, Massimo Banzi è un eretico dei giorni nostri. Un eretico che sarebbe piaciuto a Philip Dick; perché il grande scrittore americano sceglieva spesso come protagonista delle sue opere visionarie proprio artigiani dalle grandi capacità manuali: Makers, insomma, cioè gente in grado di fare le cose da sé.

A Linkiesta Banzi parla di open source, Arduino, stampa 3D, autoproduzione, innovazione spontanea. Non a caso è uno dei Makers più famosi al mondo. E di questo movimento, che sta lentamente cambiando il significato del verbo “fare” in tutto l’Occidente, lo stesso Banzi ha dato, in un articolo per la rivista Wired, una definizione forse poco accademica, ma di sicuro interessante. A suo parere i Makers «non sono nerd, anzi sono tipi piuttosto fighi che si interessano di tecnologia, design, arte, sostenibilità, modelli di business alternativi». 

Il lessico di Banzi è un lessico dalla forte carica eversiva. Che descrive un futuro sempre più probabile. Lo stesso futuro su cui si sofferma, per esempio, l’economista Stefano Micelli, teorico del Nuovo Artigianato e autore del saggio “Futuro artigiano” (Marsilio).

D’altra parte Banzi non si limita a parlare. Fa. È infatti il cofondatore del progetto Arduino, la scheda a microcontroller open source famosa in tutto il mondo, e amatissima dai Makers. Non a caso, da vero Maker, Banzi ha sempre avuto una grande passione per la costruzione delle cose. Tanto da maneggiare un saldatore già alla tenera età di dodici anni. «Ho studiato elettronica alle superiori, poi ingegneria all’università ma non ho finito, perché onestamente era un po’ noioso. Non riuscivo a rimanere abbastanza attento in aula per farmi venire la voglia di prepararmi a tutti quegli esami – confessa a Linkiesta, che lo ha intervistato su Arduino e altro.

Che cos’è Arduino? Può spiegarlo ai nostri lettori ?
Non è facilissimo spiegarlo, perché si tratta di una cosa un po’ tecnica. In sintesi, è un piccolo computer, di bassissima potenza, molto semplice, dalle dimensioni di una carta di credito. È lo stesso tipo di computer che si trova, ad esempio, in un forno a microonde, o in un telecomando. Negli oggetti di tutti i giorni, insomma. Ed è progettato per essere facile da conoscere e da programmare. Infatti questo tipo di processori, i più diffusi al mondo perché sono spesso nascosti negli oggetti di uso quotidiano, fino a poco tempo fa erano solo roba per ingegneri, insomma erano abbastanza complessi. Ciò che abbiamo cercato di fare noi è realizzare un sistema per facilitare la programmazione di questi computer molto semplici e molto piccoli, utilizzabili per animare gli oggetti di tutti i giorni. Una persona con limitate conoscenze tecniche, se acquista un po’ di esperienza con Arduino, è poi in grado di progettare oggetti d’uso comune che abbiano al loro interno un cuore digitale, ossia questo processore. Chiaramente le cose che si possono fare quando un oggetto ha dentro un processore, un piccolo computer, sono veramente molte. Una delle forze di Arduino è la capacità di utilizzare sensori, ad esempio per capire quanta luce c’è nell’ambiente, o quanto rumore…

Qual è stata la genesi del progetto?
Al mio ritorno dall’Inghilterra sono andato a insegnare all’Interaction Design Institute di Ivrea, questa nuova scuola di design che cercava di portare qui in Italia la disciplina dell’interaction design. Ed è lì, nel 2002, che ho cominciato il lavoro su Arduino. C’erano tutti questi studenti che si occupavano di design, e volevano sviluppare oggetti di tecnologia complessa, senza aver mai studiato programmazione o elettronica. E la domanda che mi ponevo era: «Come faccio a rendere più semplice l’elettronica in modo da permettere ai miei studenti di costruire rapidamente delle cose in grado di funzionare?» Questo, soprattutto, considerando che uno dei mantra dell’interaction design è che bisogna sempre realizzare prototipi funzionanti, o che almeno “facciano finta” di funzionare come l’oggetto da costruire, in modo che si possa osservare come interagiscono le persone con il prototipo in questione.

Arduino è collegabile a internet?
Sì, adesso ci sono diversi modelli di Arduino collegabili a internet. Abbiamo realizzato delle interfacce abbastanza semplici da programmare, che possono essere usate per collegare il progetto su cui si lavora a internet. Ad esempio c’è gente che realizza dei sistemi per monitorare il consumo elettrico in casa, pubblica poi i dati su internet e rende possibili delle analisi sui consumi grazie alle quali tutti possono imparare come usare meno elettricità.

Lei ha insegnato all’Interaction Design Institute di Ivrea, patria della Olivetti. È una domanda che le avranno già posto, ma esiste una continuità spirituale tra la Olivetti e il progetto Arduino ?
Io credo che il giorno, in Italia, in cui la smetteremo di rimpiangere l’Olivetti sarà un giorno di grande cambiamento. Nel senso che l’Olivetti ha fatto il suo corso, apparteneva a un mondo molto diverso da quello in cui viviamo noi adesso, e ha potuto fare quello ha fatto proprio perché si trovava in un mondo diverso. Sì, noi dell’IDII lavoravamo dentro il palazzo dell’Olivetti. Sì, la Olivetti è stata una delle prime aziende a utilizzare il design in maniera molto diffusa e profonda. Però quello che abbiamo fatto noi dopo era il futuro del design.

In Italia c’è sempre questa tendenza a rimpiangere il passato. Questo, è chiaro, ti impedisce culturalmente di pensare al futuro. Anche a Ivrea c’è ancora questo mito dell’Olivetti. Solo che Adriano Olivetti non tornerà in vita. Purtroppo è morto nel 1960, e non tornerà in vita, e l’Italia non è più quella di quando l’Olivetti era l’azienda che era. Chiaramente possiamo trarre ispirazione da certe storie: se si applica il design in maniera forte a quello che si fa, si può vendere il prodotto a un prezzo più elevato, o a mercati diversi. Tuttavia, a dispetto delle tante indicazioni che si possono trarre dalla storia dell’Olivetti, io non mi sento in continuità con essa, perché quello era un altro mondo.

Si parla di nuova rivoluzione industriale grazie alla stampa 3D. Qual è la sua opinione in merito? Condivide?
È ovvio che c’è sempre la necessità di rendere le cose un po’ più clamorose di quello che sono… Tuttavia, talvolta, per interessare le persone a un argomento bisogna presentarglielo sotto una luce molto accattivante. È chiaro che la tecnologia dietro la stampa 3D è in giro da una trentina d’anni, non è una cosa nuova, molti professionisti l’hanno sempre usata. Ciò che sta diventando interessante è che da un lato il costo di questi strumenti scende di continuo, e che dall’altro si è creata questa comunità di persone che, via via che i brevetti scadono, sviluppano stampanti 3D molto semplici ed economiche, alla portata di tutti. È facile immaginare che un giorno ci possa essere una stampante in ogni scuola, open source come Arduino…

A proposito, Arduino è stato uno dei primi esempi di open source di successo.
Sì. Prima che Arduino diventasse famoso, c’erano esempi di hardware open, ma si trattava di cose molto tecniche, che non avevano certo la comunità che Arduino ha sviluppato poi intorno a sé. Da un certo punto di vista Arduino è il primo hardware che ha veramente catturato una comunità di una certa dimensione. In seguito molta gente, ispirata dal fatto che Arduino era hardware open source, ha cominciato a pensare alla possibilità di “aprire” molti altri settori della tecnologia. Ad esempio molte di queste stampanti 3D open source hanno all’interno una scheda Arduino. In questo modo la gente può cominciare a sperimentare. Ci sono casi interessanti, ad esempio quello di un ragazzo della Repubblica Ceca, Joseph Prusa, studente di economia senza alcuna formazione di elettronica o meccanica, che ha sviluppato la sua stampante 3D, e adesso ha una piccola azienda che produce componenti per stampanti 3D open source e le vende in tutto il mondo.

Grazie al 3D c’è gente che realizza anche piccole serie. Ho incontrato dei ragazzi cinesi che producono piccoli robot basati su Arduino, e fabbricano le parti in plastica di questi piccoli robot con la stampante 3D. Ancora più interessante è immaginare quando le stampanti 3D entreranno davvero nelle case… si rompe un oggetto, ad esempio il pezzo di un mobile o di un elettrodomestico ? Si va sul sito, si scarica il file ed ecco, lo si ristampa. La diffusione delle stampanti in ogni casa è potenzialmente un evento rivoluzionario.

I critici sostengono che la rivoluzione dell’hardware open source sia un po’ utopistica. Qual è la sua opinione in merito?
In realtà l’impatto c’è già stato. Si è trattato di una piccola rivoluzione. Essa ha consentito a gente con in mente un prodotto, ma che prima di arrivare a un prototipo avrebbe dovuto consultare un ingegnere o trascorrere anni studiando, di arrivare a un risultato tangibile dopo pochi mesi. Ci sono esempi di persone che hanno fatto il loro prototipo con Arduino e poi l’hanno messo in vendita su Kickstarter, e si sono fatti dare un bel po’ di soldi per realizzare il prodotto bello e finito, quello industrializzato.

Lei cita Kickstarter. È un esempio di una modalità molto interessante di democratizzazione della produzione.
Sì, più che altro è un modello di raccolta del finanziamento alternativo, in qualche modo, a quello del venture capital. Se riesco ad attivare una comunità che crede nel mio lavoro, mi danno dei soldi per andare avanti ma senza chiedere in cambio nessuna partecipazione alla mia idea…

Lei oggi insegna alla Supsi, Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana. Qual è l’approccio svizzero a tematiche come l’innovazione, il nuovo artigianato?
La Svizzera è, in generale, una società molto orientata all’innovazione. Se guardiamo alle classifiche quanto ad apertura economica, dinamismo o competitività, è sempre ai primi posti. In Italia la parola artigianato è sempre associata a mestieri antichi, a chi fa cinture di pelle a mano … insomma, a produzioni molto piccole, molto particolari, di nicchia, quasi da mettere in un angolino. In Svizzera può essere considerato artigiano persino uno che fa meccanica di super-precisione, e non c’è questo limite, anche culturale, di non poter mai diventare grande… in Italia invece, applicando a un lavoratore l’etichetta di artigiano, si pone già un limite massimo alla sua crescita.

Quello che lei dice per la Svizzera vale anche per altri Paesi.
L’Italia ha tutta una serie di limitazione culturali, è sempre troppo rivolta al passato. Quanto al futuro, c’è invece una mancanza di progettualità. Conosciamo tutti il nostro passato, ma qual è il nostro futuro? Come facciamo a riformare, cambiare la società italiana in modo che diventi più dinamica, e offra più possibilità a tutti? Bisogna scommettere sui giovani, ecco. Questi atteggiamenti culturali italiani, secondo i quali l’artigiano è questo signore che sta nella sua botteguccia, a fare la sua piccola cosina… non vanno bene, ecco. Chiamandolo artigiano già gli si dice «Tu starai sempre nella tua nicchietta, non alzare troppo la testa». Invece in altri Paesi, ad esempio negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Svizzera, c’è l’idea che tu possa progredire fino a qualsiasi livello tu possa raggiungere.

Qual è la sua opinione sul movimento dei Makers americani?
Secondo me è molto interessante. Io credo che il movimento dei Makers sia l’ennesima manifestazione di qualcosa che succede abbastanza ciclicamente nella storia. Quando un mercato, un qualche segmento della civiltà umana, in qualche modo diventa statico, inefficiente, a un certo punto c’è sempre il punk di turno che lo riforma dall’esterno. Negli anni Settanta c’erano quelli che facevano gli hippie in California, però facevano anche i personal computer e sono diventati la Apple… adesso ci sono questi Makers che cercano di sviluppare prodotti e servizi con delle tecniche alternative. E molti di questi utilizzano Arduino come strumento per imparare come lavorare con la tecnologia e con l’elettronica, come realizzare prototipi. Cercano, insomma, di creare un modello di business alternativo, basato su una produzione più locale, su quantità magari non elevatissime ma comunque significative, fondando aziende nate per durare. Una delle cose che mi piace del mondo dei Makers è la loro concretezza. Sarebbe invece il caso di dare meno enfasi alle startup web, perché molte di loro offrono servizi per coprire necessità del tutto discutibili, con l’unico obiettivo di venderli a colossi tipo Google nel più breve tempo possibile.

Forse lo Steve Jobs del futuro è tra i Makers americani.
Secondo me c’è spazio anche in Europa. È chiaro che gli americani hanno il vantaggio di essere gente ottimista, che non si pone limiti. Un giovane Maker, che inizia adesso negli Stati Uniti, non si autolimita nelle sue possibilità di crescita. Pensa di poter creare un’azienda di livello globale. Poi è chiaro, vive in un Paese dove l’imprenditorialità è vista come qualcosa di molto importante, per cui c’è molto più sostegno, molte più agevolazioni. È chiaro che se un ragazzo italiano e uno americano partono nello stesso istante con la stessa idea, ma nei rispettivi Paesi, è come se fossero sulla stessa automobile ma l’italiano avesse il freno a mano tirato. Perché il contesto italiano gli rende più difficile realizzare cose che l’americano fa in maniera molto più semplice.

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