Chi corre contro Monti, prima spieghi il ventennio buttato

Chi corre contro Monti, prima spieghi il ventennio buttato

“In Italia nulla è stabile fuorchè il provvisorio…”, scrive Giuseppe Prezzolini nel delizioso “Codice della vita italiana”, uscito in edizione originale sulla rivista fiorentina La Voce nel lontano 192. La morale di questa campagna elettorale è riassunta perfettamente nell’inciso: si vive schiacciati sul presente, senza memoria e in perenne emergenza, ogni cosa viene digerita seduta stante e i fatti di 14-15 mesi prima diventano preistoria. Nessuno te ne chiede conto, al riparo da qualsiasi sanzione e coerenza sociale. Giornali e tv possono così raccontare l’ennesima rimonta vera o presunta di Silvio Berlusconi, che impone l’agenda a tutti; l’usato sicuro del centrosinistra di Pierluigi Bersani; la sfida centrista di un Mario Monti di lotta e di governo e soprattutto l’ennesimo teatrino di partiti pochissimo rinnovati dove i big di ieri sono inevitabilmente gli stessi di oggi.

Al premier uscente non stiamo facendo sconti, raccontando i suoi ritardi, compagni di viaggio, incoerenze, l’incertezza del programma e il suo essersi affidato alla logica correntizia dei piccoli partiti centristi. A maggior ragione colpisce la sicumera dei suoi avversari, il ditino alzato contro il governo del prof e la coazione a ripetere di chi ha preso in mano un paese uscito dall’abisso del 92-93, doveva riformarlo in profondità per tenerlo al passo della globalizzazione, invece lo ha ricacciato nel baratro, costringendo i tecnici a tornare in campo. Un’altra volta. Chi corre contro Monti, chi si candida a ruoli di responsabilità istituzionale gridando al disastro recessivo dell’ultimo anno, dovrebbe prima rispondere sul ventennio perduto, l’eredità velenosa della seconda Repubblica, la bassa crescita e le non riforme che ci espongono alla speculazione e al monitoraggio continuo di Berlino e dei mercati. Loro erano già in campo da protagonisti, Monti non ancora.

Forse val la pena ricordarlo. L’Italia di fine 2011 raccolta dai tecnici è in linea, se non più indietro, al terribile 1993 quando il salvataggio della lira varato dai governi Amato e Ciampi avvia la ritirata dello stato imprenditore. Per 18 lunghi anni il paese ha continuato ad alimentare, con la spesa pubblica, il consenso per lo status quo, l’immobilismo al posto delle riforme strategiche. Eppure l’occasione era propizia, anzi unica. Tra il 1997 e la primavera 2011, grazie all’integrazione europea e all’introduzione della moneta unica, il paese ha pagato tassi sul debito pubblico in linea con quelli tedeschi, risparmiando qualcosa come 500 miliardi di euro. Se questi soldi li avessimo usati per ridurre il debito pubblico oggi avremmo un rapporto debito/Pil di poco superiore all’80% invece che del 125%, al riparo dalla speculazione e dallo spread. Invece il fardello del nostro debito ha fatto il giro dell’oca. Raggiunto il picco di oltre 120% nel 1994, scende al 103% nel 2004 per risalire al 122% dell’autunno 2011. Prima o poi qualcuno dovrà chiedere conto alla classe politica di destra e di sinistra cosa ci ha fatto col bonus euro. A questo indicatore andrebbero sommati i 200 miliardi di maggiori entrate incamerate tra il 1992 e il 2007, la stagione delle privatizzazioni, grazie alla dismissione di importanti asset pubblici: cessione di partecipazioni, cartolarizzazioni di crediti, dismissioni immobiliari e licenze Umts.

Sempre negli anni dell’euro non è stata governata nemmeno la spesa pubblica, anzi. Il ridursi della tensione dei tassi ha eliminato l’unico strumento di disciplina della spesa corrente. La spesa pubblica primaria era pari al 39,5% del Pil nel 1993, nel 2011 ha raggiunto il 42,6%. Mentre la spesa per oneri da interessi si riduceva rapidamente dall’11,2% del Pil a poco più del 5%, quella per retribuzioni e consumi intermedi della Pubblica amministrazione aumentava (specie la spesa per sanità e pensioni). Non basta. Tra il 1995 e il 2011 l’Italia è il paese che ha registrato la maggior crescita cumulata di spesa corrente primaria: +6% contro il 3,6 della Francia, il 3,3 della Spagna e addirittura una riduzione dello 0,8% della Germania. Siamo rimasti cicale invece che trasformarci in formiche.

Nel frattempo il mondo fuori cambia velocemente, la globalizzazione si estende. L’abbandono delle svalutazioni competitive, il venir meno della politica monetaria e della leva inflazionistica, impongono un radicale cambiamento sia nelle politiche pubbliche che nelle strategie imprenditoriali delle nostre aziende. Bisogna puntare sui fattori reali di competitività: innovazione, internazionalizzazione, produttività e capitale umano ma un’altra volta i numeri ci bocciano. La spesa sia pubblica che privata per ricerca e sviluppo al 2011 è rimasta più o meno dov’era venti anni fa. La quota investita in R&S dalle nostre imprese non si è mai spostata da quel misero 0,6-0,7% sul Pil. La produttività totale non solo non riesce a crescere ma arretra, a riprova della mancata innovazione nei processi produttivi ma anche di una produttività del lavoro che nel 1993 era di 5 punti percentuali più bassa della media Ue e nel 2010 crolla a -12.
La somma di conti pubblici fuori controllo e del mancato rilancio dei fattori di competitività produce la frenata del sistema Italia, che passa da una crescita del 2,5% annuo nei primi anni Novanta allo “zero virgola” dei duemila, per un tasso medio che nell’ultimo decennio è stato pari ad un punto percentuale meno della media Ue. Se fossimo stati in linea con il resto del continente, avremmo accumulato circa 700 miliardi di ulteriore Pil. L’arretramento emerge anche dalla serie storica del Pil pro capite: nel 1990 era del 2% inferiore a quello dei tedeschi, nel 2010 il solco si allarga al 15%, nonostante i pesanti oneri dell’unificazione tedesca.

Quello con la Francia si amplia dal -3 al -7%. Con Londra si passa addirittura da un vantaggio del 6% a un delta negativo di 12 punti. Il risultato è che nel 1990 il nostro Pil per abitante valeva il 107% della media Ue, nel 2011 è sceso al 94%.
Riassumendo in numeri: 700 miliardi di ricchezza perduta, 500 miliardi di dividendo dell’euro scialacquato e 200 miliardi di privatizzazioni finiti nel cestino della spesa improduttiva, anche volendo escludere dal conteggio i circa 1.500 miliardi di gettito mangiato da un’evasione fiscale che pare inscalfibile.
Questo è il bilancio avariato della Seconda Repubblica pre governo Monti: un tesoretto da 1.400 miliardi dilapidato, indicatori in peggioramento, pochissime riforme e pochissima innovazione.

Un quasi ventennio in cui abbiamo consumato futuro e in cui la pressione fiscale ha continuato a crescere per finanziare standard di vita media al di sopra della nostre forze e possibilità. Solo tra il 2005 e il 2012 le tasse sono salite di 4,7 punti di Pil. In media un punto in più ogni 532 giorni. Se poi analizziamo la speciale classifica del salasso, calcolata sull’arco temporale 1995-2011, si vedrà che le rispettive coalizioni alternatesi al governo, sono andate a braccetto: una media pressione fiscale del 42,6% per i governi di centrosinistra, una media pressione fiscale del 42% per i governi di centrodestra. Tutti liberisti immaginari! Nel frattempo la propensione al risparmio di cui gli italiani sono stati per decenni campioni mondiali si è rapidamente e mestamente contratta: da quasi un quarto del reddito disponibile a inizio anni novanta al 10% del 2011.
Questa insomma è l’Italia raccolta da Mario Monti 15 mesi fa, cioè ieri, anche se sembra passata un’era geologica e nessuno ha voglia di ricordarsene. I tanti che erano in campo da protagonisti e oggi si ricandidano dovrebbero rispondere di questo fallimento. Dopodichè, liberi di criticare aspramente il premier uscente…
 

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