Post SilvioLa trattativa Stato-Banca fa davvero l’interesse nazionale?

La trattativa Stato-Banca fa davvero l’interesse nazionale?

Le storie che scottano – si sa – finiscono in fretta lontano dalla prima pagina. E nessuna storia scotta più di quelle che i vertici dello Stato definiscono di «interesse nazionale». Quando c’è di mezzo l’interesse nazionale, cioè il primario interesse di una comunità che si riconosce in uno stato, tutti ci si fa più riflessivi: quando poi a sancire pubblicamente l’interesse nazionale in una questione è il Presidente della Repubblica, la riflessività si fa prudenza.

Proprio questo sembra essere successo in questi giorni italiani, in cui una campagna elettorale dall’esito sostanzialmente scontato è stata tagliata in due dallo scandalo Montepaschi, dai coinvolgimenti della politica e del centrosinistra, dalla fitta rete di rapporti del sistema-Siena e anche – soprattutto – dal dubbio di una vigilanza inadeguata o quanto meno controversa da parte della Banca d’Italia. Venerdì Giorgio Napolitano ha contemperato il “bisogno di fare chiarezza” con l’interesse – superiore – della “difesa degli interessi nazionali”. Quali?

Lì, proprio in Palazzo Koch che “all’epoca dei fatti” era abitato da Mario Draghi, sta forse il primo nodo della questione. Squarciare il velo sugli eventuali errori, sulle eventuali omissioni di vigilanza o sanzione commessi da parte della Banca centrale italiana, significherebbe ovviamente puntare il dito sul vertice della vigilanza di allora – Anna Maria Tarantola, ora presidente Rai, vicinissima ad Antonio Fazio eppure fortemente promossa proprio da Draghi – e in definitiva sul vertice di Bankitalia di quegli anni.

Parliamo di quel Mario Draghi che oggi regge, con mano sicura e autorevolezza indiscussa, la tenuta dell’euro, dell’Europa e del piccolo e traballante vascello italiano nel mezzo di questa crisi. L’Europa ha trovato un partner affidabile in Mario Monti, non c’è dubbio, ma il Mario che ha salvato il continente è un altro, e fa ora il presidente della Bce. Nel 2010 dell’ispezione Mps di cui vi abbiamo raccontato in anticipo, però, governava la Banca d’Italia.

È dunque “solo” questo – non piccolo, non poco – l’interesse nazionale di cui ha parlato Napolitano qualche giorno fa? Bisogna salvare il soldato Draghi senza se e senza ma, o forse, al di là delle mura di cinta di Siena, si vede la sagoma di una storia più grande, che riguarda il sistema bancario italiano nel suo complesso? Vale forse la pena di ripercorrere con un po’ di ampiezza il rapporto tra Stato e banche e alcuni passaggi cruciali, per capire meglio le proporzioni e ciò di cui parliamo.

Le fondazioni di origine bancarie sono nate con la legge Amato (1992) e poi disciplinate dalla legge Ciampi (1998), nel complicato decennio degli anni Novanta: quando la fine di un sistema politico rendeva friabili le crepe del sistema economico che aveva mantenuto e generato. Neanche il tempo di assestarsi, in uno strano regime degli azionisti di controllo delle banche quotate (privatistico nella forma, ma sostanzialmente pubblico nelle dinamiche), ed ecco che nel 2007 spunta una crisi finanziaria internazionale, che diventa conclamata l’anno successivo con il crac della Lehman Brothers.

Il nuovo contesto impone ovunque una massiccia ricapitalizzazione del sistema bancario: in Italia avrebbe comportato impegni rilevanti di risorse che le fondazioni non avevano, oppure una diluizione nel capitale che non volevano. Il nostro sistema bancario era diverso, un’isola felice in un oceano di titoli tossici. O così ci è stato raccontato, dimenticando che le banche italiane si approvvigionavano fortemente sui mercati internazionali dove la bufera soffiava forte. Nel frattempo si fecero i Tremonti bond: li sottoscrissero Mps, Bpm, Banco Popolare, e sembrò un modo smart per non pagare dazio. Alla fine quelle ricapitalizzazioni si sono dovute fare, in ritardo e in condizioni ben più difficili (gennaio 2009 e gennaio 2011 la sola Unicredit ha raccolto capitali per 14,5 miliardi di euro). Intanto, nell’ordinaria gestione del rapporto Stato-banca, arriva la norma sugli “affrancamenti” delle attività immateriali, voluta nel 2008 dal ministro Tremonti e poi reiterata anche da Monti. Con essa si è permesso alle banche di realizzare consistenti profitti, nell’ordine di miliadi, in cambio di un’imposta sostitutiva.

Una storia di favori e rapporti incestuosi, quella della liason Stato-banca. Ma anche una storia di veri e propri scandali. Nel 2007 fu Italease, che coronava la lunga stagione dei derivati venduti a Regioni, Comuni e Pmi, poi Delta, quindi il commissariamento della Cassa di risparmio di Rimini e di quella di Teramo (Tercas), e ancora il caso Bpm. Prima, subito prima, l’estate dei furbetti, le barricate per fermare il disegno pro-italianità di Antonio Fazio che prevedeva Antonveneta con Lodi e Bnl con Unipol: un disegno di campioni nazionali che poi, peraltro, non ci pare molto diverso da quello a cui siamo arrivati, con la differenza (aggravante?) che il modello Draghi ha portato all’unione tra colossi (Intesa-Sanpaolo, Unicredit-Capitalia). Per eterogenesi dei fini, però, Antonveneta e Bnl finirono in mani straniere. Ma sotto Draghi una delle due – proprio Antonveneta, comprata da Mps – è tornata in mani italiane: a un prezzo esorbitante dissero gli analisti, qualche giornale e – cosa di gran lunga più importante – le quotazioni di Borsa. Far notare che il mercato (= gli investitori nel loro complesso) ha avuto la vista più lunga dell’autorità di vigilanza è attentato all’interesse nazionale?

In molti di questi casi, peraltro, Bankitalia ha mostrato un polso duro che non s’è visto nel caso Mps, o lo si è visto in modo «continuo e di crescente intensità»: il che lascia intendere che, dopo l’ispezione 2010, la situazione non venne presa di petto come era necessario. A chi obietta che le magagne rilevate non meritassero una sanzione, suggeriamo di far leggere il verbale dell’ispezione 2010 a qualche banchiere: vi risponderà che per molto, molto meno, si ricevono pesanti sanzioni. Lo stesso Bollettino di Vigilanza di Bankitalia è pieno di multe per carenze organizzative. Senza dimenticare che dopo l’ispezione 2010 le scommesse speculative della banca senese (il cosiddetto portafoglio di proprietà) sono salite fino a raggiungere 38 miliardi alla fine del 2011.

Le domande a questo punto diventano tante: avere permesso che la banca recuperasse «margini reddituali» attraverso strategie di investimento a debito, anziché razionalizzare la struttura e attuare l’integrazione industriale con Antonveneta, è politica di sana e prudente gestione? Il “carry trade”, insomma, è stato «l’interesse nazionale»? Mettere Mps in mano a un presidente a digiuno di banca era, già allora e non oggi con il senno del poi, una politica di sana e prudente gestione? Siamo sicuri che, a legge vigente e facendo leva sulla normativa comunitaria, Bankitalia non potesse ad esempio questionare sui requisiti di professionalità? Come ogni banchiere italiano sa bene, Via Nazionale ha avuto poteri di vita e di morte sui destini professionali di chi guida le banche.

Nel 2008 bastò un colloquio riservato con il presidente Carlo Fratta Pasini, gentilmente convocato a Palazzo Koch, perché l’amministratore delegato del Banco Popolare, Fabio Innocenzi, fosse accompagnato alla porta. Più di recente, non c’è stato bisogno di invocare alcun rafforzamento dei poteri perché l’allora vicedirettrice generale Tarantola disponesse l’allontonamento il direttore generale della Bpm, Enzo Chiesa, vietando per di più l’ingresso in cda a soggetti non graditi. Fra gli addetti ai lavori è risaputo che sulla nomina dell’attuale a.d. di Bpm, Piero Montani, è stato decisivo l’input di Via Nazionale. Come è che le stesse norme sono insufficienti in un caso mentre più che sufficienti negli altri?

C’è Draghi, l’italiano più autorevole e stimato nella storia delle istituzioni europee, sullo sfondo. C’è il ruolo della sua Bankitalia che non aggredì – questo è un dato di fatto – la vicenda senese come è stato fatto in altre vicende. Ci sono le politiche di Bankitalia sulle copertura dei crediti deteriorati, oggi molto più basse di quanto fossero a fine 2007, a fronte di un aumento dei prestiti malandati: meno accantonamenti uguale più utili, uguale meno necessità patrimoniali: è stato anche questo interesse nazionale oppure possiamo fare a meno di unirci alla caciara contro gli ispettori del Fondo monetario internazionale? 

A seguire il filo di questa ricostruzione – si vede bene – c’è molto di più: c’è un intero rapporto da ripensare tra Stato e mercato, tra enti pubblici e banche, tra vigilanti e vigilati, tra autorità indipendenti e collettività, tra real politik e rigore indispensabile alla modernizzazione del paese. E allora, accettando l’interesse nazionale ed anzi mettendolo al centro del nostro futuro, possiamo almeno chiedere che la Banca d’Italia usi il pugno di ferro nel vaglio dei requisiti di professionalità degli amministratori di banca, favorendo il ricambio della classe dirigente? 

È lecito aprire una riflessione sull’azione della Vigilanza bancaria, la cui discrezionalità ha come necessario e naturale controppeso un dovere di pubblica rendicontazione (accountability)? Possiamo, in fin dei conti, interrogarci sull’operato di un’autorità amministrativa che vanta un’indipendenza e un’autonomia senza pari nella Repubblica Italiana, oppure bisogna tacere perché il nemico ci ascolta, pena il rischio di essere tacciati di alto tradimento? 

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