Non è soltanto una “missione compiuta” la conquista della Lombardia per il segretario federale della Lega, ma è semmai un sogno personale coltivato in silenzio e con l’abituale riservatezza da almeno 18 anni. Da quando cioè l’allora ministro dell’Interno del primo effimero governo Berlusconi visse con dispiacere (se non con un implicito dissenso) la rottura traumatica dell’alleanza di governo nel dicembre 1994. Allora l’incontrastato leader del Carroccio, Umberto Bossi, azzannato dal pubblico ministero Di Pietro e persuaso al cambio di campo nella “cena delle sardine” dai segretari del Ppi, Buttiglione, e del Pds, D’Alema, accelerò la sfiducia parlamentare al già traballante esecutivo del Cavaliere.
Per Maroni era invece utile procrastinare di qualche mese l’alleanza con Forza Italia, Fini e Casini e arrivare almeno con quell’assetto politico alle Regionali della primavera del 1995 e quindi pretendere per la Lega la candidatura alla guida delle regioni del Nord (almeno Lombardia e Veneto). Una cautela pubblica che il movimento e la militanza leghista considerò un “quasi-tradimento”. E Bobo Maroni, per la sua tiepidezza, fu il bersaglio prediletto di un ribollente Congresso leghista (gli tirarono addosso sul palco un pesante vaso di fiori), ossessivamente concentrato nel proclamare una cieca fedeltà alla linea di Bossi guerriero e combattente contro tutti. Maroni fece autocritica e il Capo lo perdonò. In quel Congresso era venuto Massimo D’Alema, a nome del Pds, a valorizzare la Lega popolare come “costola della sinistra”. E proprio D’Alema aveva offerto il sostegno leale del Pds e di altri spezzoni della sinistra a una candidatura Maroni alla guida della Lombardia in opposizione alla stella nascente di Roberto Formigoni.
Rammentare questa doppia opportunità allora perduta può apparire esercizio di archeologia politica, anche perché dal 1995 al 2000 la Lega andò sempre in piena solitudine, aumentando i voti ma anche l’isolamento sulla via della secessione e dell’invenzione della Padania. In seguito (e per ben tre volte) il Carroccio aveva sostenuto in alleanza il lungo comando del Celeste, tra lealtà elettorali ed espliciti e concorrenziali mugugni di governo.
Il successo odierno di Maroni in Lombardia, in aperta controtendenza con il dimezzamento elettorale della Lega e dello stesso Pdl, acquista i contorni quasi di una nemesi storica, alla quale non sono certo estranee le inconfessate ambizioni e rivincite personali macerate da tanti lustri. Forse nel 1995, quando la Lega aveva già conquistato Milano con il sindaco Formentini, la presa del Pirellone avrebbe avuto un significato diverso, ben più dirompente. Diciotto anni dopo, invece, consegna il certificato di sopravvivenza politica a un partito stanco, estenuato dalle frustrazione di aver poco raccolto e prodotto nella lunga stagione romana e involuto fino quasi all’abiezione dalle mattane del Trota, dai traffici di figuri per nulla raccomandabili come l’ineffabile tesoriere Belsito e dalla mediocrità imbarazzante del “cerchio magico” bossiano.
C’era ancora Umberto Bossi a benedire ieri la vittoria di Maroni: quasi che, come accade molto spesso nella storia dei movimenti politici, non tocchi mai al “profeta carismatico” realizzare concretamente gli obiettivi indicati, che possono venire invece raggiunti dai continuatori pragmatici, certamente meno immaginifici ma più “tagliati” per l’arte di governo. D’altronde la “profezia carismatica” ha già trovato da tempo nuovi “stati nascenti” e nuovi interpreti (su tutti Grillo) e Maroni si porta un piccolo patrimonio di credibilità esecutiva accumulato nell’esperienza ministeriale (prima al Welfare e poi al Viminale), come testimonia il consenso lusinghiero raccolto dalla lista personale apparentata.
Anche perché il neo-governatore, finite le forzature polemiche e le antipatizzanti esagerazioni propagandistiche della campagna elettorale, è probabilmente l’unico a poter contare su un impianto culturale di dottrina politica con una sua riconosciuta dignità intellettuale. La pluridecennale elaborazione del professor Gianfranco Miglio, comunque la si voglia considerare, ha una indubitabile “coerenza di sistema”, nel momento in cui si constata nei fatti la drammatica inadeguatezza degli Stati nazionali di modello classico in epoca di globalizzazione e la resistenza passiva che oppongono agli obbligati processi di modernizzazione europea.
Lo Stato italiano, con le sue inefficienze, i suoi parassitismi, le sue onnipotenti corporazioni è forse il più “inadeguato” di tutti nel panorama europeo. E la elefantiaca macchina statale è la sola a non aver subìto la “cura di austerità” e di torchiatura riservata invece alle famiglie e alle imprese. È stato questo il fallimento strategico del professor Monti (peraltro sanzionato dalle urne) che rende probabilmente meno traumatica e scandalosa l’ipotesi di Miglio degli assetti macro-regionali. D’altronde è proprio l’Europa a puntare per il futuro più sulle Euroregioni come corpi intermedi che sulla completa, costosa e pressocché impossibile armonizzazione degli Stati tradizionali.
Ecco che allora la scommessa del neo-governatore Maroni acquista un profumo di innovazione e l’opportunità di una prospettiva certamente più intrigante, oltretutto nello stallo paralizzante consegnato dal voto politico al Palazzo romano. A condizione che non rinchiuda il suo itinerario in un localismo nostalgico, in un puro sindacato di territorio (com’è la natura abituale della Lega) e collochi la Lombardia al centro delle relazioni europee. È un salto di qualità da far tremare le vene ai polsi, ma è anche una sfida a suo modo inedita e affascinante. E andrà “marcato” molto stretto dall’opinione pubblica per pretendere che si dimostri all’altezza.