Mps, più che uomini nuovi servono regole semplici

Mps, più che uomini nuovi servono regole semplici

Quanto tempo resterà sulle prime dei giornali e nelle scalette dei Tg lo scandalo Mps? Quanto macineremo ancora noi giornalisti e le Procure in servizio permanente effettivo su Rocca Salimbeni, gli spifferi, le carte segrete, i conti all’estero, la tangentona, la mancata vigilanza, gli intrecci di potere, le coperture, il sovrapprezzo sull’acquisto di Antonveneta, il disegno criminale, il “mostro” Mussari, le mani arraffone della politica, il cinismo dei banchieri, la fondazione lottizzata, la massoneria e tutto quanto fa cassetta in questi giorni?

La vicenda Monte dei Paschi è un grande romanzo di malagestione collettiva: i vecchi manager, la politica ingorda che invade tutto, gli organi di controllo interni, la vigilanza bancaria e dei mercati. Tutto ciò va denunciato con forza e senza sconti e Linkiesta lo sta facendo ma fermarsi qui significherebbe non arrivare al nocciolo della questione.

Se mettiamo in fila gli scandali dell’ultimo ventennio c’è da fare la controstoria della Seconda Repubblica. Da Tangentopoli in poi, solo per stare ai grandi titoli, ci sono stati i bidoni Cirio e tango bond, Bipop Carire e Banca 121, il crac Parmalat, l’estate dei furbetti, i maneggi di Ricucci & Fiorani, la guerra sporca su Antonveneta, lo spionaggio Telecom, il crac Intra-Finpart, la stagione degli immobiliaristi d’assalto fino al crollo del San Raffaele di don Verzè, le pastette sanitarie al Pirellone e la fine dell’impero Ligresti, la caduta degli Dei. Ogni volta dispendio di inviati, inchieste giornalistiche, editorialoni, rivelazioni scabrose, trasmissioni e talk show, ultrà scatenati all’attacco e in difesa, gole profonde, protagonisti messi alla berlina e disarcionati, dossieraggi, intercettazioni, pizzini, tantissimo buco della serratura e irrefrenabile caccia agli untori, moralismo di ogni genere e specie, in alcuni casi sacrosanti interventi legislativi varati ad hoc e pubbliche contrizioni durate lo spazio di un mattino, fino al successivo scandalo. Nel dicembre 2005 abbiamo cambiato il governatore di Bankitalia nell’illusione che bastasse cambiare persona (Mario Draghi al posto di Antonio Fazio) invece che regole e strutture, e pochi anni dopo Via Nazionale è di nuovo nella bufera. Perchè?

Come nell’immagine del videogame tanto cara a Giulio Tremonti, quando pensi di aver sconfitto il mostro te ne appare sul display uno ancora più grande. Pensavamo di aver toccato il fondo con la maxi tangente Enimont (125 miliardi di vecchie lire, 65 milioni di euro) ma è bastato poco per accorgersi che i politici della Prima Repubblica e gli imprenditori un po’ boiardi e un po’ lobbysti dell’epoca erano ladri di polli rispetto alle cifre che girano oggi. È forse questione di cifra criminale dei protagonisti? Difficile immaginarlo. Tutto si moltiplica e ingrandisce perché il Paese non impara mai le lezioni del passato e le varie tangentopoli si trasformano in occasioni sprecate. Così si crocifigge la commedia umana, sorprendendosi ogni volta, invece che ragionare seriamente su quali regole dare, poche chiare e certe, e quali sanzioni a sistemi economico-finanziari per loro natura imperfetti e fragili e al sempiterno dilemma del rapporto tra la politica e gli affari. S’inseguono le biografie perché così piace alla gente e si fa cassetta sicura perdendo di vista le ragioni di una crisi o di uno scandalo. Sgombriamo il campo da equivoci: gioca molto l’avidità, c’è un grande tema di etica delle classi dirigenti, ma questa in fondo è farina vecchia come il mondo e la tiritera dei mala tempora currunt non convince né può essere la chiave di tutto il marcio.

In questo senso la vicenda del Monte è esemplare: ci si ostina a guardare il dito e mai alla luna. Si oscilla continuamente tra moralismo inveterato – i soldi puzzano sempre e comunque – e formalismi estenuanti. Regole da azzeccagarbugli e pauperismo anticapitalista, figlio della doppia cultura cattolica e comunista. Ad ogni scandalo mettiamo controlli e regole nuove e si riparte dopo aver trovato il capro espiatorio.

Il grande giurista Giuseppe Maranini, storico preside del “Cesare Alfieri” di Firenze e inventore del termine “partitocrazia”, nella sua Storia del potere in Italia scritta nel lontano 1967 anticipa e descrive la degenerazione, le crepe e i vizi di un sistema politico, del suo intreccio affaristico e del suo finanziamento crollato 25 anni dopo sotto i colpi della magistratura proprio perché non guardava alle persone che sono sempre un legno storto, ma alla cornice, ai meccanismi organizzativi. In una cultura profondamente idealistica come quella italiana, che si appella continuamente ai valori, Maranini è stato uno dei pochi intellettuali fautori del “sapere empirico”. Credeva al primato delle istituzioni rispetto ai comportamenti politici e alle rappresentazioni collettive che li ispirano. Le strutture, le regole plasmano un ambiente, svolgono un ruolo decisivo nel modellare modi di operare, una cultura diffusa e condivisa, perpetuandone vizi se mal costruite o confuse o stratificate. Emendandoli o correggendoli o riducendoli se ben costruite.

Purtroppo dagli anni Sessanta ad oggi l’empirismo ha fatto poca strada in Italia, anzi. La politica debole degli ultimi venti anni, bloccata e litigiosa che non decide e affastella norme poche chiare impaludandosi nella vetocrazia, aggrava il quadro lasciando campo libero all’illusione tecnocratica o, alternativamente, alla supplenza giudiziaria che esonda da ogni lato, fa le liste elettorali, azzera consigli di amministrazione, chiude stabilimenti (Ilva), riscrive pezzi di storia di un Paese fino a scendere direttamente in campo con propri esponenti. Fagocitate entrambi da una ideologia della “società civile” che è stata la vera benzina della Seconda Repubblica.

Per la verità l’Italia non è un caso isolato. È tutta l’Europa di questi anni che rischia di morire di ingessature, funzionalismi e troppe regole, livelli di governo infiniti e burocrazia irresponsabile. Nella crisi finanziaria e dello spread l’Ue si è inventata una sequela di fondi salva Stati Efsm, Efsf, Esm, il fiscal compact, il two pack, il six pack, insomma un barocchismo infinito, non di rado confliggente, riunioni fiume e zero dinamismo. Si aggrava la crisi e si aumentano i livelli di regole, appesantendo la catena decisionale. In questo l’Europa si sta italianizzando al posto di trasferire modelli competitivi virtuosi.

Lo storico scozzese Niall Ferguson nei suoi ultimi lavori, Occidente e The Great Degeneration, fa un parallelo con la caduta dell’Impero cinese al tempo dei Ming, individuando nell’eccesso di regole stratificate che portano all’indecisione e all’immobilismo la causa del nostro attuale declino. Troppi livelli, troppo formalismo, troppa burocrazia da sempre sentina di corruzione. Avanti di questo passo la bicicletta si ferma e cade per terra. La turbo finanza fuori controllo e vicende incestuose come Mps, sono esattamente un pezzo di questo ragionamento: figlie del denaro facile ma soprattutto di strutture troppo complesse e di un eccesso di regolazioni sbagliate in cui è facile perdersi e alimentare corruzioni e scambi impropri.

«Siamo seriamente preoccupati per la vostra democrazia», disse qualche tempo fa a Romano Prodi un alto esponente del governo di Pechino. «Ogni anno votate, ogni mese vi trovate a qualche vertice per discutere e discutere, ma quand’è che decidete…?» Fuori del paradosso di chi lo Stato di diritto lo vede solo col binocolo e non ha lezioni da dare, vista dalla Cina la nostra Europa appare come una balena spiaggiata in un mondo che corre a mille all’ora. In fondo l’unica istituzione comunitaria che decide in (quasi) autonomia e tempo reale è la Bce di Mario Draghi. Peccato che non sia democratica…

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