Arbitrage, il sogno capitalista dell’impunità

Il distributore è il figlio di Dell’Utri

Un miliardario finisce nei guai per vizi privati, cioè sesso, e – mentre la moglie gli ciuccia il patrimonio anche per tutelare i figli – lotta con gli inquirenti cercando una sola cosa: l’impunità (Ah, di mezzo c’è anche un Dell’Utri: nel senso di Marco, il primogenito, che distribuisce il film).

Non è per infilare berlusconismo dappertutto, naturalmente, che scriviamo così di “Arbitrage – La frode” di Nicholas Jarecki, ma per sostenere la efficacia esemplare di questo racconto sull’ultimissimo capitalismo occidentale, che trova riflessi nella realtà a diverse latitudini, sempre più ingabbiato da scandali e cupezza esistenziale: gli spiriti animali sono invecchiati, fiaccati per quanto ferocemente spregiudicati, l’odierna corsa all’oro è un bidone da rifilare in giro prima che ci sia il crack, anche a costo di calpestare i legami più profondi, quelli familiari.

Succede che Robert Miller (Richard Gere), sessant’anni superbamente portati, sta per fare il colpo della vita: vendere il suo impero finanziario a una cifra notevolissima. Nel pieno della trattativa, in una notte rubata alla moglie (Susan Sarandon) per la sua amante (Laetitia Casta), un colpo di sonno gli è fatale: guidando va fuori strada e la giovane donna muore. Per evitare lo scandalo, chiama un ragazzo di colore, figlio del suo vecchio autista, un tipo borderline, per coprire l’incidente.

Il caso sembra subito strano al detective Bryer (Tim Roth), che non ha prove ma è pronto a camuffarle pur di incastrare il riccone che vuole – al solito – farla franca sulla pelle delle pedine deboli. Intanto in azienda viene a galla il buco: se ne accorge sua figlia ed erede Brooke (Brit Marling), direttrice finanziaria. Miller è sulla graticola: da un lato deve vendere l’azienda a un altro squalo della finanza, Mayfiled, continuamente evocato, prima che si scopra la frode; dall’altro, deve allontanare lo spettro della galera per la morte provocata dell’amante. Gli applausi dell’high society lo omaggiano sul finale: il marcio resta coperto, ma il prezzo da pagare per lui è comunque altissimo.

Quel che colpisce di questo thriller è il grado di consapevolezza del contesto narrato, facilitato dalla biografia di Jarecki, la cui famiglia opera nella finanza e nel mercato delle materie prime (lui stesso ha avuto esperienze imprenditoriali). Lo spunto è nato da una serie di inchieste – intitolate “La Grande sbornia” – realizzate sul crollo economico da Vanity Fair (genialmente uno dei personaggi, il temuto Mayfiled, è interpretato proprio dal direttore di VF, Graydon Carter).

È poi partito lo studio antropologico delle figure raccontate: speculatori, raider, operatori di hedge-fund, la fauna del GM Building di Manhattan, del Four Season, di Wall Street, del Plaza Hotel, persino del tribunale al numero 100 di Center Street (nella sala del Grand Jury, in cui si è girata qualche scena, proprio in quegli stessi giorni si teneva il processo a Dominique Strauss-Kahn). Ne è venuto fuori un copione che, tenendo assieme la lezione di Tom Wolfe (identico il tema dell’incidente già nel “Falò delle vanità”) e le cronache del caso Madoff, compone una riuscita parabola sui mercanti del tempio, al cui servizio si pone un Richard Gere nella “prestazione migliore della carriera” (costellata di grandi successi ma non di altrettanto grandi performance).

Miller è un uomo di potere con tutta la complessità del ruolo, capace di giocare tra gesti crudeli e improvvise generosità con disinvoltura impressionante: c’è chi è più colto, chi più ricco, perfino chi più intelligente di lui, ma lui conosce meglio degli altri il mondo, le sue pratiche e i suoi abitanti, avendolo percorso dal fondo degli inizi alle stelle della maturità. È quello che meglio di tutti conosce il prezzo di tutte le cose, di tutti i sentimenti, di tutte le scelte: ed è questo, alla fine della fiera, a fare la differenza.

New York rappresenta un personaggio a tutti gli effetti del racconto: dai bassifondi di Brooklyn ai grattacieli con vista su Central Park, passando per la ricca bohème delle gallerie d’arte e i luoghi della giustizia. Obbligatorio citare chi ha saputo fotografarla con tale efficace, Yorick Le Saux, che proprio in Italia aveva colto tutta la bellezza algida di Milano per un’altra storia familiar-capitalista (seppur con venature più melodrammatiche) come Io sono l’amore di Luca Guadagnino, apprezzata in America – ebbe anche una candidatura agli Oscar per i costumi – più che in Italia. Purtroppo.