Contraddittoria ma attraente: la Chiesa a 35 millimetri

Cinema e fede

Nella settimana dell’intronamento di papa Francesco, gli si potrebbe suggerire d’offrire uno sguardo al cinema, perché con grande senso di tempestività nelle sale italiane sono approdate o stanno per approdare diverse opere sulla chiesa: sulla sua vita, sulle sue vicende, sui suoi personaggi. Dall’America giunge un durissimo documentario sullo scandalo della pedofilia nella diocesi di Milwaukee, l’Italia invece sforna un autentico gioiello sulla Passione di Cristo, “Su Re”, in Francia si affronta il tema della conversione, e intanto diversi autori si dedicano a figure storiche o più recenti.

Alex Gibney è uno dei migliori documentaristi americani. Si è occupato dello scandalo Enron (“Enron: The Smartest Guys in the Room”) , ha vinto l’Oscar con un lavoro sulla presenza militare Usa in Iraq e Afghanistan e il trattamento dei prigionieri (“Taxi to the Dark Side”). Oggi continua la sua indagine sul lato oscuro dell’America con “Mea maxima culpa: silenzio nella casa di Dio”, dedicato a una serie di casi di violenza sui minori avvenuti in un istituto religioso per non udenti di Milwaukee.

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Al centro del film, come suo nero fantasma, la figura di padre Lawrence Murphy, che abusò indisturbato di oltre duecento bambini sordi, forte del suo carisma e delle coperture garantite nel corso dei decenni dai vertici ecclesiastici, in una catena di silenzio che dalle lande americane si è allungata fino alle stanze più importanti del Vaticano. E’ solo grazie alla coraggiosa denuncia di quattro di quei ragazzi che è maturata una conoscenza della vicenda, poi evolutasi in tempi recenti in una causa legale addirittura contro il Pontefice. L’inchiesta è un gelido, feroce racconto sulla perversione del potere che ha lasciato lungo la strada vite rovinate, presentandosi come macchina omertosa tesa solo all’autoconservazione. Non manca nulla, nemmeno la contabilità: i 7 milioni di dollari disposti dall’arcidiocesi per accordarsi con le vittime, gli 80 milioni di euro spesi dalla chiesa per curare i 2 mila preti pedofili scoperti, la previsione di 2 miliardi di dollari per risarcire le vittime nelle varie vertenze che si sono aperte, nonché le incredibili immissioni di denaro in casse vaticane che hanno consentito a una figura come Padre Maciel, capo dei Legionari di Cristo, di uscire senza castigo da una storia di violenze e abusi che lo qualifica come una delle figure peggiori della Chiesa contemporanea. “Mea maxima culpa” non arretra di fronte a nulla, nemmeno quando si tratta di identificare le responsabilità al più alto grado: offrendo una lettura assai problematica delle azioni – sul tema pedofilia – di Giovanni Paolo II e dando invece un puntale, amletico ritratto del dimissionario pontefice Ratzinger, incapace di fronteggiare gli scandali: prima da cardinale a capo della Congregazione per la dottrina della fede (la struttura che si occupa di queste vicende), per una chiusura totale di Wojtyla; e poi da papa perché imprigionato dalla Curia romana, specie nella figura – emerge dal film – del cardinal Sodano.

Nelle fasi finali del documentario, che si avvale nel racconto sulla Santa sede della collaborazione di Marco Politi, vaticanista del Fatto Quotidiano, si apre anche una inquietante finestra italiana: un caso assai simile a quello di Milwaukee, verificatosi a Verona. Di nuovo la violenza sui minori sordi (sino a pochi anni fa considerati alla stregua di malati psichici), di nuovo il silenzio come regola di comportamento per le gerarchie questa volta italiane, assai meno sensibili a occuparsi del tema di quanto accada in altri Paesi europei. Forse con un Papa Francesco, che in conclave ha ricevuto l’appoggio decisivo dei cardinali statunitensi, particolarmente impegnati nel fronteggiare e cercare di risolvere gli scandali delle loro diocesi, il velo che ancora copre tali vicende potrebbe squarciarsi. E magari sarà il tempo che la chiesa italiana si spoglierà di molte delle remore nell’affrontare in profondità un argomento così scabroso.

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Si colloca invece su una dimensione intemporale, mistica, profondamente emozionante, “Su Re” di Giovanni Columbu. Certamente uno dei migliori film italiani degli ultimi anni. Ambientato in una spoglia, primordiale Sardegna, grigia di pietre e di cielo, parlato in una lingua sarda che ha il suono biblico dell’ebraico, racconta gli ultimi giorni della vita di Gesù. Colloca i personaggi in paesaggi naturali, li veste di abiti neri, li prende come farebbe Caravaggio dalla vita giornaliera di oggi, con i volti privi di ogni abbellimento estetico: questo Gesù non è biondo come le figurine della liturgia ma è piccolo e bruno e brutto, è un Gesù che non fa miracoli e che non risorge, che non urla al Padre chiedendo salvezza ma lo guarda (in una soggettiva bellissima) rappresentato in nuvole di temporale senza speranza, mentre è inchiodato alla croce e sta spirando, sputando l’ultimo sangue. Questo Gesù è raccontato come un uomo che muore, un perdente, un derelitto, per di più tradito, e questo del tradimento è un movimento nodale del film, perché assimila i comportamenti di Giuda e di Pietro (ai due, dopo i rispettivi cattivi gesti, Columbu riserva una stessa identica carrellata a precedere, come se fossero lo stesso personaggio): Giuda lo bacia, Pietro dice “non lo conosco”, e dei due resta infine null’altro che l’abbandono verso il messia, e un identico rimorso successivo. Senza mostrarci che l’uno è dannato e l’altro destinato ai Cieli. Perché questo è un film di uomini, non di santi: raccontati non nella cronologia degli eventi, ma nell’intreccio dei piani temporali, come se ogni episodio, ogni frammento contenga il tutto e rimandi alla dimensione misteriosa (e affatto pacifica) del Creato. “Su Re” – tratto da tutti e quattro vangeli, e non adottando un unico punto di vista come fece Pasolini – rilancia straordinariamente il messaggio cristiano, non rivolto in via esclusiva ai credenti, e andrebbe preso con grande attenzione da una chiesa che si pone prioritariamente all’ascolto degli ultimi, al ritorno austero alla povertà.

Il tema della fede, pur in società profondamente laiche, si dimostra essere tutt’altro che secondario. La dimostra la commedia francese “L’amore inatteso”, pur meno ambiziosa di “Mea maxima culpa” e “Su Re”, che affronta la questione della conversione. Una scelta radicale, profonda, che ha maggiore forza quando sboccia nel cuore di chi alla fede è in partenza lontano se non ostile: è il caso del santo Francesco, oggi richiamato per la prima volta nella storia come nome pontificio dal gesuita Bergoglio, quel Francesco a cui Liliana Cavani si sta dedicando per la terza volta, in una ricerca che inesausta attraversa i decenni, nella convinzione che in diverse epoche il santo d’Assisi ha sempre nuove suggestioni da comunicare.

Su una figura a noi più vicina come don Tonino Bello, il fondatore di Pax Christi, ha invece lavorato il regista salentino Edoardo Winspeare – sempre molto sensibile verso tematiche che vanno dallo spirituale all’etnografico, meglio ancora se legate alle storie e figure del tacco d’Italia – con il mediometraggio “L’anima attesa”. Su un fronte tutto diverso sta invece la serie tv “I Borgia” nella versione di Neil Jordan, in onda su La7. Il regista irlandese, cattolico non praticante, che ha collezionato finora premio Oscar e Leone d’Oro, di recente al “Messaggero” ha così spiegato il suo interesse verso Rodrigo Borgia: “Il cattolicesimo è una religione che mi affascina grazie a figure come lui: contemporaneamente molto religioso e molto corrotto. Grazie alla confessione un cattolico può purificarsi dei suoi peccati anche in punto di morte. E’ una religione contraddittoria e attraente”. Da ultimo proprio in questi giorni si apprende che a breve Ridley Scott, il maestro di “Blade Runner”, si accinge a girare il pilota di una serie tv, “The Vatican”, sugli intrighi d’Oltretevere, con Bruno Ganz nei panni di un immaginario Sisto VI.

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