Gli Usa: “L’Eni dirige la politica estera di Roma“

La guerra dell'energia tra inchieste e geopolitica

Sotto inchiesta in Algeria e poi in Italia. È l’Eni, il colosso energetico italiano, pesantemente coinvolto nello scandalo per presunta corruzione internazionale che ha investito prima la Sonatrach, la società nazionale degli idrocarburi dell’Algeria, e poi Saipem. Uno scandalo dalle fortissime ripercussioni, che ha attirato ulteriore attenzione su un’azienda le cui strategie in certi Paesi produttori fra cui Iran e Russia sono spesso state oggetto di approfondite analisi. Basta dare un’occhiata a Wikileaks per averne conferma.

Un cablo del 20 maggio 2008 riporta il contenuto di una conversazione che avrebbe avuto luogo due settimane prima fra l’ad di Eni Scaroni, e il sottosegretario statunitense Reuben Jeffery a Washington. Secondo il cablo Scaroni avrebbe chiesto a Jeffery l’opinione del governo americano su un possibile studio di fattibilità in Iran per la costruzione di un gasdotto dal sud del Paese alla Turchia. Domanda alla quale il sottosegretario avrebbe reagito con decisione, replicando che un progetto simile e qualunque nuovo investimento in Iran avrebbe danneggiato gli sforzi della comunità internazionale per portare Teheran a negoziare sul proprio programma nucleare. 

Scaroni avrebbe allora risposto che gli investimenti Eni in Iran ammontavano a 3 miliardi di dollari: la società dunque non avrebbe realizzato ulteriori investimenti ma non avrebbe nemmeno lasciato il Paese. Altro punto dolente nelle relazioni tra Eni e gli USA sarebbe il progetto South Stream, che coinvolge anche il colosso energetico russo Gazprom. Com’è noto, si tratta del gasdotto per portare il gas russo in Europa attraverso il Mar Nero, e che gli Stati Uniti vedono come concorrente del Nabucco, concepito per diminuire la dipendenza energetica europea da Mosca, portando il gas naturale del Caspio in Europa, attraverso Turchia, Bulgaria, Romania, Ungheria e Austria.

Nel già citato cablo del maggio 2008, Scaroni avrebbe dato rassicurazioni a Jeffery in merito: il South Stream non avrebbe danneggiato le prospettive di altri progetti (come il Nabucco) perché sarebbe servito principalmente a sostituire il gas russo attualmente fornito dal gasdotto Druzhba (anche conosciuto come Friendship) attraverso l’Ucraina. Un altro cablo dell’aprile 2008, definiva «non convincenti» le rassicurazioni di Eni su South Stream, sottolineando la rilevanza del Cane a sei zampe come partner dei piani espansionisti di Gazprom. Addirittura, nel gennaio 2009 l’ambasciata americana in Italia avrebbe fatto rapporto sulla «russofilia italiana». Secondo il cablo l’energia sarebbe la questione bilaterale più importante fra l’Italia e la Russia, e la causa di compromessi fra Roma e Mosca in questioni politiche e di sicurezza. Sempre secondo il cablo le idee dell’Eni sulla situazione energetica europea sarebbero così simili a quelle di Gazprom o del Cremlino da risultare inquietanti: per l’Eni, riporta il cablo, la vera minaccia alla sicurezza energetica dell’Europa Occidentale non sarebbe la Russia, bensì l’Ucraina. 

Insomma, negli ultimi anni i rapporti fra l’Eni e Gazprom sono stati monitorati attentamente dagli Stati Uniti. Tanto che nell’aprile 2008, con l’elezione di Berlusconi al governo, l’allora ambasciatore americano a Roma, Spogli, avrebbe scritto al presidente Bush: «suggeriremo di utilizzare l’influenza del governo italiano, che in parte possiede [la società], per porre fine al ruolo di Eni come punta di lancia della Gazprom. Questo, probabilmente, richiederebbe una nuova leadership nell’Eni». Ma nell’ottobre 2008 lo stesso ambasciatore avrebbe rilevato che, in effetti, sembra essere l’Eni a influire su Roma, più che viceversa. «Eni è un partner molto importante per la Gazprom e sta costruendo gasdotti nel Baltico e nel Mar Nero che molti temono possano aumentare la dipendenza europea dal gas russo».

Proprio questa è la preoccupazione principale degli Stati Uniti: un’eccessiva dipendenza dell’Unione Europea dal gas di Mosca. «Il governo italiano si dichiara preoccupato quanto noi sull’eccessiva dipendenza dalla fornitura di energia russa; in realtà però sembra trovarsi molto a suo agio in quello che vede come il suo rapporto speciale con la Russia», si legge sempre nella comunicazione dell’ottobre 2008.

Se nei cablo appena citati si riscontrano soprattutto considerazioni di tipo geopolitico però, ne esistono altri che vertono su aspetti ancora più concreti. In un clablo del dicembre 2009 verrebbero riportate le segnalazioni del vicepresidente per l’Africa della multinazionale energetica Tullow, Tim O’Hanlon. Secondo quest’ultimo, funzionari di alto livello del governo dell’Uganda sarebbero stati «risarciti» per appoggiare la vendita all’Eni delle licenze di esplorazione e produzione di un’altra compagnia, l’inglese Heritage Oil and Gas. Licenze relative alla zona del Lago Alberto, e alle quali mirava anche la Tullow, tanto da pensare di vendere parte delle sue proprietà in Uganda a imprese più grandi, fra le quali l’americana ExxonMobil, per far fronte all’acquisto. Secondo O’Hanlon, l’Eni si sarebbe aggiudicata quelle licenze corrompendo il locale Ministro della sicurezza, quello dell’Energia e sviluppo minerario nonchè il Segretario Generale del partito ugandese più forte, il National Resistance Movement (NRM).

«Se le accuse di Tullow sono vere, e crediamo che lo siano – scriverebbe l’ambasciata statunitense in Uganda – la vendita Heritage-Eni farebbe probabilmente deragliare ogni possibile alleanza fra Tullow ed ExxonMobil e avrebbe pesanti ricadute sulla trasparenza nella futura gestione del settore [in Uganda]». O’Hanlon avrebbe anche chiesto all’ambasciatore americano di aiutare la Tullow a portare queste accuse alla luce, e di sollevare dubbi su come fosse avvenuta la vendita fra Heritage Oil and Gas ed Eni. Anche l’attivismo dell’impresa italiana in Mozambico non è passato inosservato. Secondo quanto riportava in gennaio il New York Times, il direttore del settore esplorazioni della BP, Mike Daly, avrebbe dichiarato: «abbiamo perso l’Africa Orientale. La gente dell’Eni è quella che ha avuto più successo lì». 

Naturalmente c’è anche chi difende il Cane a sei zampe. «Il settore degli idrocarburi è problematico anche perché questi Paesi sono quello che sono – dice a Linkiesta una fonte del settore – è così, ma accusare l’Eni di essere un mostro della corruzione è ridicolo. Anzi, opera meglio di gran parte degli altri player del settore». E in effetti questa è una vicenda sulla quale solo i giudici potranno fare effettivamente luce. Certo è che, anche prima di conoscere i risultati definitivi delle indagini giudiziarie, le informazioni senza filtro offerte da Wikileaks disegnano un quadro piuttosto crudo del settore energetico. Un settore dal quale, al di là degli enormi profitti che genera, dipendono gli equilibri geopolitici del mondo.

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Precisazione di Eni

Gentile Direttore,
in merito all’articolo pubblicato da Linkiesta dal titolo “Gli Usa: l’Eni dirige la politica estera di Roma” a firma di Valentina Saini, ci preme condividere con lei alcune osservazioni e precisazioni.
Senza entrare nel merito della reale e completa rappresentazione dei fatti offerta dai cablogrammi pubblicati da Wikileaks, scambi di pareri tra diplomatici di livello più o meno elevato, ci sembra tendenzioso associare quanto emerse allora dai leaks alle indagini in corso sulle attività di Saipem in Algeria in nome di un “quadro piuttosto crudo” che caratterizzerebbe il settore energetico.
Eni non fa politica estera e, nell’ambito del proprio ruolo e delle proprie attività, negli anni passati come oggi mantiene con l’Amministrazione americana rapporti frequenti e basati su un confronto totalmente trasparente, come del resto avviene con tante altre amministrazioni dei paesi in cui opera ed ovviamente anche con quella italiana. A tal proposito, le ricordiamo la dichiarazione resa da Douglas Hengel, numero due dell’allora ambasciatore americano a Roma, David Thorne, che in pieno periodo wikileaks affermò che negli ”ultimi anni” gli Stati Uniti hanno stabilito con l’Eni ”rapporti frequenti e molto trasparenti” fondati su uno ”scambio di idee e visioni sulla situazione dei mercati energetici, con particolare riferimento a quello del gas” (Ansa, 3 dicembre 2010). Questo naturalmente vale anche per il tema Iran, dove Eni sta solamente recuperando in termini di petrolio, come previsto contrattualmente, gli investimenti realizzati nel paese oltre 10 anni fa.
Per quanto poi riguarda l’Uganda, Eni dichiarò fin da subito privo di fondamento il contenuto di quanto attribuito nei cablogrammi al manager di Tullow, che a sua volta, come si poteva leggere da organi di stampa internazionali di settore di quei giorni, prese le distanze dal contenuto stesso.
Per completezza di informazione, la preghiamo di pubblicare questa nostra comunicazione.
Cordialmente
Erika Mandraffino
Eni – Senior Vice President Media Relations

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