Legge elettorale e voto, per evitare la sindrome Monti

Legge elettorale e voto, per evitare la sindrome Monti

In questi giorni siamo un paese sospeso tra snobismo e buco della serratura. Lo snobismo di chi (a sinistra e tra le fila montiane) non sa fare i conti con la sconfitta elettorale o la vittoria mutilata, dando colpa alla crisi economica, al destino cinico e baro o all’ignoranza della gente che non capisce la bontà delle riforme, bocciando a sua insaputa chi le ha promosse. È il vecchio vizio di pensare che basti l’evidenza razionale delle cose per far scattare il consenso. Non è così, tanto più in democrazia.

Il buco della serratura è invece la caccia spasmodica al grillino neo eletto, l’ultimo sport nazionale alimentato da giornali e televisioni: chi saranno mai questi marziani a Roma, cosa porteranno in Parlamento, cosa farà Beppe Grillo e il suo guru Casaleggio, a chi daranno l’appoggio, se lo daranno, e via elencando ossessivamente. Tipico caso di un paese che non sa captare ciò che scorre nelle proprie vene e quando il fenomeno esplode in superficie oscilla tra l’ostracismo e le blandizie. Nel frattempo a destra, sotto la tenda di Berlusconi, sembra prevalere la sicumera di chi l’ha scampata bella. Di chi pensava di venire spazzato via invece è ancora in pista. Quindi nessuna autocritica sul passato ma a tutti ad aspettare, ridendo sotto i baffi, che il realismo faccia il suo corso, ossia che Bersani dopo le aperture di rito al M5S, venga a denti stretti a bussare dal Cavaliere. O grande coalizione o tutti a casa.

Questa miscela impazzita sta producendo il bailamme di questi giorni. Tatticismi sfrenati, posizionamenti, forzature, aperture e chiusure continue, negoziati sotto banco tanto da costringere il Colle ad intervenire per stoppare il teatrino.
L’impressione forte, lo diciamo all’inizio di una settimana decisiva, è di trovarsi di nuovo al punto di partenza. Nel novembre 2011 un governo tecnico dietro l’abile regia del capo dello Stato ha riacciuffato per i capelli un paese sull’orlo del baratro. Con i partiti responsabili del “ventennio perduto” della Seconda Repubblica all’angolo, i primi passi del governo Monti sono efficaci e decisi: serietà, riforma delle pensioni e un recupero di immagine a livello internazionale.

Già dal passaggio successivo, la riforma del lavoro, la sua azione comincia ad annacquarsi. Il novembre drammatico si allontana, lo spread scende, il paese esce dalla rianimazione e piano piano i partiti della strana maggioranza, storditi dalla supplenza, si re-impossessano della scena perduta. Dopo l’estate si entra nell’anno elettorale, l’insofferenza verso l’esecutivo tecnico cresce a dismisura: troppo rigore europeista, troppe tasse e zero crescita è l’accusa dei partiti che pure lo appoggiano. A sinistra ci sono le primarie, a destra cade la maschera dell’interregno di Angelino Alfano e Berlusconi, spinto da sondaggi da brivido, torna al comando. Nel frattempo nelle piazze esplode lo tsunami tour di Grillo. 

Il resto è cronaca: davanti al ritorno al futuro del Cavaliere e di un centrosinistra uscito dalle primarie a trazione socialdemocratica, Monti decide di salire in politica per evitare che venga dilapidata l’eredità di un anno emergenziale. Com’è andata, lo sappiamo: il premier fa un mezzo flop e dalle urne esce un grande pareggione elettorale dove nessuno può davvero governare, in un quadro di forte incertezza economica e internazionale.

Per questo l’unica strada percorribile, al di là di velleitari governi di minoranza Pd con appoggio esterno grillino, ci sembra quella di varare un esecutivo di scopo sotto la vigilanza del Quirinale che cambi la legge elettorale, dia un segnale forte sul taglio dei costi della politica e sull’economia reale (liquidare i ritardi di pagamento alle imprese e mettere il Tfr in busta paga per rilanciare un po’ i consumi) e poi già in autunno riporti il paese alle urne. Abbiamo bisogno di governi forti, popolari, facce nuove e legittimate.

Inutile immaginare governi di larghe intese Pd-Pdl-Monti, forse auspicabili in una situazione europea così incerta. Abbiamo già dato e non siamo in Germania. La strana maggioranza sigillerebbe l’attuale classe dirigente dei partiti: un Bersani debolissimo e sotto scacco; un Berlusconi campione insuperabile a giocare al gatto col topo. Le vere riforme che servono al paese sarebbero impossibili, come dimostrato nel corso di quest’ultimo anno. Nè possiamo permetterci l’ennesima sospensione democratica: un altro governo tecnico allargherebbe il solco tra cittadini e palazzo già fortissimo in tutta Europa, dove il cortocircuito “austerity-crescita-cicli elettorali-democrazia” è ormai la vera emergenza da affrontare. Per la gioia dei tanti Grillo d’Europa. Ne stiamo dando conto in questi giorni su Linkiesta e anche oggi con Stefano Cingolani, nell’analisi pubblicata sotto. È questa la “sindrome Monti” da evitare.

P.S. Tornare alle urne in autunno imporrebbe soprattutto un passo indietro agli attuali vertici dei partiti maggiori (che infatti non vogliono). Probabilmente nel centrosinistra correrebbe Matteo Renzi, ad oggi l’unica diga al grillismo dilagante (non a caso il comico lo teme), stimolando un ricambio generazionale e di programmi anche nel centrodestra (con il sindaco di Firenze in campo, Berlusconi non scenderebbe più in campo). Forse diventeremmo un paese più normale. Senza bisogno di tsunami tour.
 

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