Omaggiato dalla bibbia cinefila dei “Cahiers du cinema” che concedono al film addirittura la copertina, toccherà senza scampo fare i conti con “Spring breakers”. Harmony Korine, dopo averla presentata in concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, porta sugli schermi di tutto il mondo la sua ultima pellicola, al solito disturbante, di sicuro non trascurabile, costruita senza sociologismi o psicologie ma con una chiave che è tutta estetica. Una specie di controcanto al cinema più sperimentale di Gus Van Sant: laddove il maestro di Portland segue una pista quasi astratta, metafisica come in “Elephant” e “Pananoid Park”, Korine calca sull’esagerazione, sull’accecamento, sulla sovrabbondanza.
“Spring breakers” parte come un interminabile videoclip gangsta di Mtv, continua come un’avventura di bimbe maggiorenni sculacciate nell’orgia della vita e infine si chiude come un sanguinante noir metropolitano. Tiene assieme questo filo un quartetto di protagoniste decisamente spiazzante: Selena Gomez, Vanessa Hudgens, Ashley Benson, Rachel Korine. Angioletti da casino, le quattro cavallerizze dell’aporcalisse, incrocio tra la dolcezza disneyiana e l’estetica femminile di YouPorn: intendiamoci, nessuna scena esplicita di sesso, ma corpi esplosivi in bikini indossati quasi per tutto il film, un’autistica ossessione del piacere ma come in una disperata simulazione permanente.
La vita al college non passa mai, anche perché ormai è primavera e il pensiero è tutto per le canoniche vacanze da sballo concesse agli studenti in quel periodo. Le quattro, per viverle alla grande, hanno però bisogno di soldi che non hanno, e così svaligiano un fast food. Fanno festa, ma la polizia le becca e le arresta. Davanti al giudice, la sorpresa: un certo Alien (interpretato da James Franco) paga per loro la cauzione. Le quattro diventano sue sodali. E così la vacanza interrotta ricomincia, ma lungo una rotta (criminale) del tutto inaspettata.
Come quelle navi che ripuliscono il mare, Korine raccoglie i rifiuti mobili della realtà e dell’immaginario americano e li mostra secondo un canone estetico pop e grottesco, un techno-vaudeville, un disco-inferno terzomillenarista. È arte contemporanea in una discarica fluorescente, alle prese con ogni sorta di materiale, il realistico e il visionario, il turpe e il poetico, il trucido e il lirico, l’innocente e il perverso, il cinico e il sentimentale, tutti mischiati, in diversi gradi di deposito e di consunzione, per cui talora i margini dell’uno si sciolgono in quelli dell’altro: valga come esempio l’improbabile coppia di gemelli – due criminali che vivono in simbiosi, anche sessualmente – che pare un’invenzione anche un po’ lercia della sceneggiatura ed è invece presa di peso dalla realtà e trasferita nella storia del film (un’istruttiva intervista ai due chiarisce meglio i personaggi: la trovate qui).
Al servizio di questa operazione ci sono valori tecnici fuori discussione: ogni dettaglio di costume e di ambiente aggiunge qualcosa di più preciso nella affascinante caratterizzazione dei personaggi, la colonna sonora è curatissima nel suo apparente fracassonismo. Eppure l’impalcatura a conti fatti non regge: per far andare avanti le protagoniste lungo la strada della perdizione non si può procedere solo di alcol e di crack, di “pussy” e di pistole. È una lunga apnea tra l’odierna gioventù bruciata ma a un certo punto l’ossigeno finisce, senza che sia venuto fuori il colpo di genio: qualcosa che trasformi in vivo quadro esistenziale un racconto troppo furbo della deriva dorata al sole della Florida.