Napoli – DeMagogistris è in rottamazione. Il caudillo addolorato dell’ultima falsa rivoluzione napoletana vive ormai in un bunker di rabbia, circondato dal malessere di una città. I commercianti, la borghesia grande e piccola, i disoccupati organizzati, gli industriali, i partiti. Critiche dappertutto. Perfino un dirigente della polizia, dopo aver ieri coordinato le forze dell’ordine in una mattinata massacrante tra cortei blocchi e petardi, sussurrava osservando la ritrovata, instabile normalità di una città sull’orlo di una crisi di nervi: «Ma può essere che nessuno al Comune poteva incontrare una rappresentanza di questa gente?». Nessuno, barile scaricato sugli agenti anti-sommossa, e poi sulla Prefettura. La città fa blocco più o meno rumorosamente contro l’amministrazione, ma il problema di Napoli ha in sé qualcosa di più grandioso e tragico della parabola tutto sommato appena biennale di un sindaco quasi per caso, e probabilmente per poco ancora. La città porosa vive su una grande bolla di vuoto che non è solo geologico e che si manifesta in alcuni luoghi simbolici come autentico buco nero.
Bagnoli, per esempio. “Disastro ambientale” è l’ultima comunicazione della procura, che indaga sulle mancate bonifiche, costate comunque 107 milioni di euro. Le aree sono quelle dell’ex Eternit ed ex Italsider. Archeologia di quella che fu una grande città industriale, tramontata per sempre – e per paradosso – proprio agli albori della sindacatura a suo modo epocale di un operaista ingraiano come Antonio Bassolino. A Bagnoli si è incenerita un mese fa la Città della Scienza, su cui peraltro si interroga più Bruxelles (l’altro giorno all’europarlamento c’è stata una giornata sul tema, sperando nel piatto dei prossimi finanziamenti Ue, purtroppo assai ridotti) che la stessa Napoli. Bagnoli ogni giorno ha la sua pena: e oggi per le bonifiche-truffa la pena tocca a punte di diamante di quella borghesia cittadina impegnata in politica. Tra i 21 indagati, anche due ex vicesindaci, entrambi poi presidenti di Bagnolifutura, ossia la società cui spettava la trasformazione dell’area: Sabatino Santangelo, uno dei maggiori notai di Napoli, e Rocco Papa, ingegnere e ordinario alla Federico II. Personalità raffinate. Con loro anche Carlo Borgomeo, manager di solida fede bassoliniana, e Marco Hubler, che oggi presiede il grande evento dell’America’s Cup a Napoli: entrambi della società sono stati direttori generali.
Da che parte la si guardi, sotto accusa appare quella borghesia cittadina tra il tecnocratico e il liberoprofessionale, di cultura e buona quando non ottima affluenza, che attraversa la gestione del potere metropolitano pur sotto differenti spoglie: anche nell’esperienza De Magistris. Perché c’è naturalmente il movimentismo e il benecomunismo che sostennero fino alla vittoria il sindaco, ma nemmeno va dimenticato che “Giggino ‘a manetta” è pur sempre un magistrato figlio di un magistrato (peraltro di stretta geografia borbonica, non avendo mai avuto incarico al di sopra del Garigliano), sedicente berlingueriano del Vomero. C’era, dentro quell’onda arancione terronistica, il residuale mondo tardo-marxista, para-ambientalista, centrosocialista, ma anche la simpatia di un mondo imprenditoriale convintamente liberista come quello di Antonio D’Amato, divenuto leader di Confindustria grazie a un’operazione che è forse davvero l’ultima esperienza nella recente storia della classe dirigente italiana di ascesa dalla periferia partenopea al vertice nazionale, dove però i risultati furono al fine modesti, se è vero che l’assalto all’articolo 18 – sua battaglia delle battaglie – fu respinto dalla Cgil di Cofferati con tre milioni di lavoratori lungo le strade di Roma. Oggi quel mondo, coalizzato in forma passeggera per una serie di concause che vanno dal suicidio perfetto del Pd con le sue primarie farsa fino agli scandali della galassia berlusconiana che in Campania è particolarmente “impresentabile” (si va dal caso Cosentino alla vicenda Noemi), ecco quel mondo si ritrova di nuovo spaccato, sfiduciato rispetto al progetto, anzi perfino insofferente ad esso.
La vittoria di molti s’è ridotta oggi al comando di uno: il sindaco. Che ha tentato la carta nazionale con Ingroia ed è andata malissimo, che in città ha creato una zona a traffico limitato per auto e motorini di proporzioni gigantesche tagliando allo stesso tempo sui pullman e i mezzi pubblici (un bel giorno si fermarono tutti insieme perché non c’era benzina per mandarli in giro), che ha deciso di risolvere il problema rifiuti non alla base ma imbottendo navi dirette in Olanda.
Intorno monta la furia sociale, debitamente affiancata anche dalla criminalità (che ieri ha costretto a chiudere le saracinesche anche molti negozianti che non aderivano alla serrata del commercio), si stringe la tenaglia Pd-Pdl che hanno vissuto la sua vittoria come uno smacco di un “utile idiota”, e intanto Napoli resta confinata a una specie di racconto coloniale, un circo della desolazione vagamente sudamericano, un problema per il quale sono esauriti persino gli strumenti, le analisi, arrese dinanzi alla irrisolvibilità del male. Da quanto infinito tempo si parla di Napoli? Ancora Napoli? Ne tacciono oggi perfino le rappresentanze parlamentari cittadine: perché a parlarne porterebbero grane e mai soluzioni. E allora silenzio: avete letto dichiarazioni su Napoli di qualche deputato o senatore? Niente di rilievo. Disinteresse? Nemmeno. La vicenda è più disperata e sentimentale: per vergogna, lo “scuorno”. E allora meglio tacere: prova regina, in questo contesto di rovina, più di inesistenza che di afonia.
Un bizzarro destino di ingovernabilità, se solo si riflette sulla circostanza che napoletani occupano i vertici della presidenza della Repubblica, della Banca d’Italia, della Rai, delle Generali. Perché Napoli non intercetta – da troppi anni ormai – l’eccellenza che produce? Meglio non chiederselo, si finirebbe in qualche esausto discorso antropologico che incombe oltremisura sulla narrazione di Napoli. Piuttosto invece sorprende un altro fatto: uno dei paladini della lotta ai clan dei Casalesi, Federico Cafiero de Raho, per anni procuratore aggiunto della Dda di Napoli e oggi procuratore capo a Reggio Calabria, ha dichiarato chiaro e tondo: «La camorra sta per essere battuta, siamo quasi arrivati alla sommità del vertice. È vero, c’è ancora la camorra di Secondigliano, ma sono gruppi isolati». Uno dei grandi guai della città subisce un’aggressione inesorabile, fin quasi a intravvederne la fine, e questo potrebbe, dovrebbe rifondare almeno una speranza civica. Invece, niente, o quasi. Nessun dibattito. Perché?
C’è un luogo che incarna esattamente cosa sia Napoli ora. L’inizio della Riviera di Chiaia. Come in una scenografia accuratamente studiata, vi campeggiano tutti i segni significativi della città. L’America’s Cup, ovvero la vetrina internazionale, il consolato americano, ovvero il ruolo strategico che la città conserva, se non altro per la sua posizione, poi il cantiere della Metro dell’Arte, ambizioso progetto di trasporto pubblico che si trascina da un decennio e passa, e infine un palazzo signorile con un’ala crollata, sgomberato come gli altri edifici vicini lungo un arco di duecento metri per paura che venga davvero giù ogni cosa. C’è tutto, lì: ambizioni più o meno sbagliate, potere, disastro. Sul lato mare della Riviera, comincia il chilometro del Village America’s Cup: a Napoli già sabato prossimo si terranno le prime regate, i primi catamarani da giorni provano le acque del Golfo. E Napoli è inviperita. Tanto che ieri, una parte del corteo anti-sindaco che si è staccata da Piazza Municipio e ha preso la direzione proprio del villaggio, dove inscenare la protesta clamorosa, impedita qualche centinaio di metri prima dallo schieramento di uomini e camionette della pubblica sicurezza. La spesa tra fondi di vario tipo è di circa 8 milioni di euro e nell’anima collettiva della città sembra il giocattolo che il sindaco ha voluto farsi. Al punto da disertare l’incontro coi commercianti – questo si pensava in piazza – perché impegnato a Posillipo in una riunione sull’evento. Il traffico sul lungomare è impazzito, la circolazione è una variabile indipendente con orari e sensi di marcia cambiati nottetempo senza comunicazioni, le voragini sulle carreggiate mappano l’intera viabilità metropolitana… e il sindaco pensa alle regate.
Ecco cosa si dice. Senza risparmiare l’accusa familistica all’evento, essendo ormai acquisito in città che i grandi eventi sono appannaggio del fratello del primo cittadino, Claudio. Un’accusa pesante, sempre respinta, ma che incombe su qualsiasi iniziativa che il sindaco decide sul fronte della promozione della città. Chi c’è dietro? Claudio. E amen.
Il chilometro e passa di Villaggio comincia proprio accanto al marmo bianco del consolato Usa, presenza che rimanda al ruolo nodale di Napoli nello scacchiere Nato. La base militare di Bagnoli (tutto passa per Bagnoli in questo quadrante della storia di Napoli) verrà abbandonata entro settembre dai soldati, sfrattata dalla Regione Campania che forse vi impianterà i propri uffici. I diplomatici restano a Chiaia, anche se resta da capire che ne sarà di Chiaia, uno dei salotti di Napoli. Intorno le opere infrastrutturali della metro. Sta venendo fuori un capolavoro, dicono: ogni stazione pensata come un’installazione di arte contemporanea. Il che forse avrà un suo piacere estetico, ma contraddice una legge urbanistica ormai acquisita nella cultura del XXI secolo, ed enunciata con chiarezza da Edward Glaeser, professore di Harvard, un luminare della ricerca urbanistica, che nel suo recentissimo “Il trionfo delle città” spiega: «Gli interventi estetici non possono mai sostituire gli elementi fondamentali della realtà urbana». Dateci la Metro, anche se non dell’Arte. E soprattutto che intorno non crei rovine. Perché è addebitata anche ai lavori della metro il crollo di una parte di Palazzo Guevara di Bovino, venuta giù nonostante la struttura imponente di tufo (era la mattina del 4 marzo, lo stesso giorno dell’incendio alla Città della Scienza, un lunedì nero). Sgomberato il palazzo, e gli altri nove attorno, 180 persone portate a vivere in albergo alle Terme di Agnano, una miriade di negozi ed esercizi chiusi: la farmacia, il ristorante, la rivendita di sigarette elettroniche, una vetrina dopo l’altra in successione e senza vuoti, inaccessibili al di là delle impalcature che separano la strada dai palazzi, dove i vigili del fuoco sono continuamente all’opera per verificarne la stabilità e le condizioni. Gli occhi del mondo tra una settimana posati sulle vele spiegate dell’America’s Cup certo non guarderanno quello che c’è trecento metri più dietro.
Il “Corriere del Mezzogiorno” sta dando voce con grande rilievo da giorni allo stato in cui è ridotta la città. Intellettuali ed ex amministratori che incarnano sensibilità diverse formano un coro quasi unanime: chiudere quest’esperienza amministrativa prima che sia troppo tardi. Il vecchio assessore al Bilancio, Riccardo Realfonzo, spiega che il Comune è sull’orlo del dissesto. Giuseppe Narducci, ex pm di Calciopoli che aveva in giunta la delega alla Sicurezza prima di essere allontanato, invoca la semplice normalità amministrativa, che a Napoli sarebbe la prima delle rivoluzioni. Il sindaco intanto procede per la sua strada, pare stia approntando un altro rimpasto. Inseguendo il colpo d’ala, provando a scavallare il momento orribile, confidando in un vento finalmente favorevole. Miraggi. Gli ennesimi della sirena Partenope.