Cancelli e finestre, le “soglie” delle foto di Ghirri

Lo spirito del microcosmo padano, che non cade mai nella retorica regionalistica

È pacifico non conoscere Luigi Ghirri, ma sarebbe imperdonabile, dopo aver sentito il suo nome, continuare a ignorare questo fotografo, certamente uno dei grandi artisti italiani del Novecento. Ghirri appartiene a quella particolare linea emiliana che taglia la pittura con Giorgio Morandi e la letteratura con Gianni Celati: un’arte che ha la sua forza nel suo nitore, negli elementi puliti e chiari di cui si compone, nel suo incantamento semplice ma non tutt’altro che ingenuo o inconsapevole rispetto al reale. È un’arte che, una volta conosciuta, è immediatamente riconoscibile. Come non distinguere subito le bottiglie di Morandi? Allo stesso modo, come non vedere in certi bianchi paesaggi di Formigine o Rubiera il genio di Ghirri?

Un’occasione per avere sotto gli occhi un’amplissima selezione (300 opere) della molto vasta produzione del fotografo è data dalla mostra in corso fino al 27 ottobre presso il Maxxi di Roma “Luigi Ghirri. Pensare per immagini. Icone, paesaggi, architetture”. Grazie al materiale offerto dal Comune di Reggio Emilia e dalla Biblioteca Panizzi, che ha in dote l’archivio lasciato da Ghirri (fotografie, 188 mila negativi, oltre a libri, menabò, cataloghi), l’intero percorso artistico si snoda nei suoi episodi più rilevanti, dagli esordi alle ultime produzioni della carriera, interrotta da morte improvvisa a 49 anni nel 1992.

È forse maturo il tempo per conferire degnamente nel racconto nazionale il giusto posto a questo strepitoso scrittore di luce, valutato nella sua grandezza assoluta forse più all’estero che in patria, a parte la giusta devozione della sua piccola patria reggioemiliana. Una sua fotografia campeggia su Artforum, una delle maggiori riviste di arte contemporanea che celebra la mostra romana; è stato appena smontato l’allestimento di “Kodachrome” alla Matthew Marks Gallery di New York, città che già lo celebrò in vita alla Light Gallery, lui primo fotografo europeo a ricevere un invito; così come a Colonia fu omaggiato nel 1982 dalla rivista Photokina in una rassegna sui venti maggiori fotografi del mondo, e uno era lui.

Di questo maestro ci restano una gran quantità di opere, ma anche innumerevoli tracce scritte, che restituiscono appieno il suo spirito. Uno spirito dei luoghi, del paesaggio, del suo microcosmo padano, che però non cade mai nella retorica regionalistica. La questione è più profonda, c’è una verità nella quotidianità che è universale: sono le campagne con i suoi lavoranti intorno ad Anversa che Bruegel dipinge per l’intera vita, e le cantate di Bach sono scritte per la gente di un villaggio. Anche Ghirri è e si sente in fondo un abitante delle campagne. «Le campagne erano per lui l’ultimo luogo dove si possono avere delle visioni, dove si può immaginare l’immensità dello spazio, attraverso l’orizzonte che ci avvolge». Lo scrive Gianni Celati, suo amico e compagno di tante avventure editoriali, nel suo ricordo che correda le stupende Lezioni di fotografia pubblicate nel 2010 da Quodlibet.

Un piccolo Buster Keaton reggiano, ironico e distratto, vagamente stralunato con i suoi occhiali sempre un poco appannati (proprio lui, un fotografo…) perché dimenticava di pulirli, sempre in giro con le sue «Volkswagen scassate, di seconda mano, che morivano regolarmente per strada, a volte piantandolo su un’autostrada straniera, senza un soldo in tasca», scrive Celati. Col diploma in tasca, va a fare il geometra nei dintorni di Modena, ma lo cacciano via perché passa il tempo in bagno a leggere: «Ma era anche un uomo pratico e ostinato. Una volta l’hanno chiuso in manicomio. I dottori volevano che diventasse matto, ma lui se l’è cavata», ricorda ancora l’amico.

Si inventa una casa editrice, con cui pubblica splendidi libri d’arte, che però non fanno una lira, lasciandolo «in mezzo a una confusione di debiti, di pignoramenti». Legge di tutto, studia ogni cosa, intanto comincia a prendere in mano la Olympus Pen (poi passerà alla più impegnativa Pentax), e inizia un po’ selvaticamente il suo apprendistato «artigianale, rudimentale, arcaico» nella fotografia. «Non sono andato a scuola in un laboratorio di fotografia, o in uno studio fotografico, o in un’agenzia fotografica, non ho fatto il fotoreporter né il fotoamatore. La mia esperienza è nata piuttosto da una frequentazione dell’immagine, da una passione anche un po’ dilettantesca, se si vuole, ma che è immediatamente, fin dall’inizio, orientata ed esplicata all’interno del mondo dell’arte». Comincia così, su questa via «un po’ dilettantesca», a raccontare il suo mondo. Anzi, il mondo. «La mia storia personale è un po’ confusa – scrive Ghirri – si tesse tra il Castello di Scandiano (la città dove è nato, ndr) e il caffè davanti alla fabbrica. Tuttavia non intendevo trasformare la provincia nel simbolo dell’universo, ma lo ritenevo un adeguato punto di partenza poiché il vero simbolo della provincia è essere incapace di narrare la propria storia».

Ghirri comincia la sua investigazione sul reale, scendendo nelle profondità del quotidiano, con i suoi studi sull’atlante, sul mondo di carta, sul kitsch, o nei «viaggi domenicali minimi, nel raggio di tre chilometri da casa mia», incrociando persone, situazioni, fotomontaggi al naturale, e quella metafisica del chiarore prodotta dalla nebbia, la magia della lattigine che nella foschia che moltiplica all’infinito lo sguardo in lontananza. Fellini, il Deserto rosso di Antonioni, il Ford di Furore, l’adorato Walker Evans, suo fotografo preferito. Fra la via Emilia e il West, proprio così.

Ma senza magniloquenza, senza rumore. Non ama le grandi dimensioni, ma il medio formato, perché «la lastra, nella quale si vede tutto, anche i dettagli si devono ritoccare, causa un eccesso di rivelazione, si vedono troppe cose». La visione non è un colpo di teatro, «preferisco ribaltare il meccanismo: provocare lo stupore, più che con invenzioni sensazionali e mai viste prima, giocando con le memorie, con le storie già scritte, con l’immaginario delle persone. Trovo più interessante tirare fuori cose nascoste nelle memorie, nei pensieri, nelle relazioni».

Ghirri tiene sempre a mente una mostra vista al Moma di New York, “Specchi e finestre”, due elementi che per lui in fondo sono «i due filoni, due rilevanti e differenti modi di vedere, che consistono nel farsi specchio della realtà e nell’essere finestra sul mondo. Io personalmente ho sempre optato per la seconda declinazione, preferendo pensare che la fotografia sia una finestra aperta sul mondo». E infatti le sue immagini sono piene di finestre, di porte, di cancelli, di soglie, un’immagine a lui molto cara e fondamentale nella sua poetica, soglia come passaggio, «confine tra l’interno, quello che pensiamo, quello che vediamo, quello che possiamo vedere, quello che dobbiamo vedere e quello che vediamo nella realtà e che determina un’osservazione comune, cioè tra il nostro mondo interno e l’osservazione del mondo. Questo punto di equilibrio io penso di averlo identificato con l’inquadratura». È questo il suo lavoro, la sua missione: usare la realtà, i suoi elementi, per superarla. «Credo che la fotografia consista essenzialmente in un’operazione di cancellazione del mondo esterno – dice ai suoi allievi – . L’inquadratura è una cancellazione della realtà che vedo come ritorno al bianco, non al nero. L’immagine tende a dilatarsi. Per questo lascio sempre, nelle mie immagini, dei punti o delle vie di fuga, comunque cerco di non chiudermi mai in un’immagine».

La sua ricerca è continua, inesorabile. Le si dedica senza sosta, Ghirri, perfezionando il suo discorso poetico, spezzato da un infarto, a Roncocesi: nella sua ultima casa, in mezzo alla sua amata campagna, una di quelle case con tante finestre, l’ingresso in prospettiva, il corridoio che dà sul giardino posteriore. Scrive l’amico Celati: «Le ultimissime sue foto: al limite del possibile fotografico… Forme che si intravvedono appena nella nebbia… antiche case, che sembrano fantasmi. Diceva che voleva fotografare “il respiro della terra”. Diceva che le canzoni di Bob Dylan gli ricordavano qualcosa che vedeva nei quadri di Bruegel. Gli ricordavano il sentimento dello stare al mondo, come stupore e meraviglia per tutto quello che c’è». Ghirri non c’è più, eppure continua a esserci.

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