TORINO – Arriva vestito con una lunga tunica chiara, spezzata da una giacca a quadretti: «Da cinque o sei anni non entro più nei pantaloni umani. Per questo uso il ghandora, un abito marocchino. Ci sto meglio». Ride caustico, sotto una barba bianca che nasconde il volto invecchiato del ragionier Ugo Fantozzi.
Paolo Villaggio festeggia i suoi 80 anni (compiuti il 30 dicembre scorso) al Salone del Libro di Torino. Attore, autore di canzoni, scrittore: «Un grande scrittore del Novecento. Di ben trentadue libri», precisa Bruno Gambarotta, che porta i pantaloni e gli fa da spalla sul palco della Sala 500 del Lingotto. Villaggio è, soprattutto, il padre di Fantozzi, maschera italiana senza tempo, tanto da diventare immortale: la parola «fantozziano» è entrata nel linguaggio comune come nei dizionari, al pari di «kafkiano». E quella nuvola carica di pioggia che accompagnava la bianchina del ragionier Ugo si è trasformata in un’allegoria universale.
Ristabilito dal malore improvviso che aveva messo in dubbio la sua presenza, il comico genovese affabula. O meglio, predica. Come sottolinea ironicamente Gambarotta, che lo soprannomina “padre Villaggio”. «Nato come un personaggio che doveva far ridere – racconta Villaggio – il mio Fantozzi ha fatto, invece, capire agli italiani che non erano quelle persone completamente riuscite nella vita che si credevano». È stata una terapia collettiva, ammette: «La tendenza a esaltare le nostre cose come le più belle è una malattia tipicamente italiana. Dal “il più bel Paese del mondo” in giù. Non è così. Come si fa la pizza a Napoli la si fa anche in Messico».
Villaggio parla e mugugna. Mugugna e parla. In modo tranchant; privo di formalismi. Portatore di un pessimismo quasi cosmico smorzato da un’ironia pungente e mai doma. «Quando Fantozzi diventò conosciuto, spesso mi avvicinavano per strada e mi dicevano “sa che assomiglia a mio zio o al mio vicino di pianerottolo”. Nessuno mi diceva la verità ovvero che Fantozzi erano loro. Fantozzi rappresentava coloro che si trovavano dalla parte di quelli che non contano molto. Un personaggio sfortunato, rassegnato però, in qualche modo, quasi felice. Felicità che è difficile da provare oggi, perché si è persa ogni speranza. Il Fantozzi di oggi ha pantaloni larghi e la riga in mezzo ai capelli e, soprattutto, ha paura che non ci sia un futuro. I giovani sono preoccupati e i vecchi non muoiono più. Vedi Gambarotta (che è più giovane di quattro anni di Villaggio e sogghigna, ndr) o la Montalcini che a 103 anni non era molto lucida. Volete la verità?». Villaggio si rabbuia per un attimo, poi la butta lì, fredda come una lama di rasoio. «I ragazzi dai 12 ai 35 anni stanno capendo che il futuro è una rottura di coglioni incredibile!». Il pubblico ride amaro.
«Sono finiti i tempi belli. In Italia come in Europa. Dobbiamo accettare un periodo triste come questo, accettare anche lavori più umili». Gambarotta prova a interromperlo e a farlo ritornare sul libro, le oltre cinquecento pagine di Tragica e definitiva trilogia, edito da Rizzoli (578 pagine, 14 euro): «Ecco, padre Villaggio, manca solo che dici “date una carezza ai vostri bambini e poi suicidatevi”». Ma il sermone continua: «Dobbiamo accettare l’idea che la cultura italiana e quella occidentale non sono più culture leader nel mondo. Se devo dare un consiglio ai giovani, dico loro andatevene via da qui. Andate in Cina, andate da quelli che prima consideravamo nostri ex schiavi. Non lasciatevi vivere. La casta politica da noi promette il Bengodi. Io, sono molto pessimista». Poi, quasi sottovoce, la confessione elettorale: «Ho votato Grillo». E riprende il leitmotiv: «Sono tempi bui».
Col microfono si rivolge al pubblico e chiede di raccontare qualche storia della crisi. Chi arranca o chi è disperato. Il risultato, alla fine, risulta magro e involontariamente comico: una mamma preoccupata per il figlio in Russia che, seppure abbia un lauto stipendio, è costretto a lavorare al freddo tra i ghiacci; un ingegnere trentacinquenne che ritiene che il problema principale del mondo sia la sovrappopolazione; una liceale in crisi preuniversitaria; un signore sessantenne che invita gli italiani a fare figli per contrastare l’arrivo in massa di nuovi immigrati, «che di figli ne fanno tanti».
Dalla crisi alla religione nel tempo di una battuta. Villaggio rivendica il suo ateismo. «Ma come diceva Kant l’invenzione di Dio è straordinaria. La Chiesa non ha mai fatto del bene, ha causato guerre più d’ogni altra cosa. Il nuovo Papa? Fa il brav’uomo. Mi sembra Pertini, fondamentalmente amato, ma imbecille». La platea questa volta ride poco. Poi, racconta un aneddoto: «Ero a Trieste per uno spettacolo che fu giudicato una merda. Quella sera conobbi Margherita Hack, l’astrofisica. Ero seduto, mi toccò la spalla con forza e mi guardò dall’alto come uno scarafaggio. Le chiesi: “Professoressa, che idea ha di Dio?” La risposta fu un ruggito: “Mi fate la solita domanda del cazzo! Noi che viviamo in un piccolo pianeta in una delle galassie più piccole di questo universo dovremmo credere a queste bubbole?” Con voce cavernosa se ne andò via ruggendo ancora una volta “Io sono atea, atea!”. E pure io lo sono rimasto».