Il primo libro (dimenticato) su Don Puglisi

"A testa alta", storia di un eroe solitario

Quando questo libro uscì, nel 2003, la tragica vicenda umana e civile di don Giuseppe Puglisi non era certamente conosciuta nei particolari come è invece adesso, in ragione della beatificazione del parroco siciliano, celebrata in questi giorni: per la prima volta nella storia della Chiesa una vittima della mafia è stata santificata.

Alla storia di questo “prete-coraggio”, assassinato da sicari dei boss con un solo colpo alla nuca, il 16 settembre 1993 è dedicato “A testa alta. Don Giuseppe Puglisi: storia di un eroe solitario” (ora disponibile anche in edizione tascabile, Einaudi, pp. 174, euro 11,00), scritto con straordinaria leggerezza stilistica e passione civile dalla giornalista Bianca Stancanelli; un libro che merita di essere riletto.

Il 1993 è un anno di svolta nella storia d’Italia: sotto i colpi dell’inchiesta di Tangentopoli si sfarina il sistema dei partiti e la stessa mafia dopo l’arresto di Totò Riina sembra sull’orlo di una crisi irreversibile; alla fine di marzo la Procura della Repubblica di Palermo chiede l’autorizzazione a procedere contro il senatore a vita Giulio Andreotti per concorso esterno in associazione mafiosa e il 9 maggio, nella valle dei Templi, ad Agrigento, Papa Giovanni Paolo II, scaglia contro Cosa Nostra il più potente anatema mai pronunciato dall’autorità religiosa, perché – grida il pontefice nel suo discorso – il popolo siciliano «non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà della morte».

In quegli anni difficili, padre Puglisi inaugura a Brancaccio, uno dei quartieri di Palermo con la più alta densità mafiosa, una stagione di ribellione e di lotta contro le ingiustizie e la povertà.
Per cercare di cambiare il modo di pensare della sua comunità, padre Puglisi sceglie, invece, deliberatamente di cominciare dai più piccoli, dai ragazzi del quartiere: è attraverso di loro che intende diffondere una nuova cultura della legalità e della giustizia sociale.

Tutto questo ha l’effetto di disorientare sia i politici sia i vertici della mafia, che faticano a comprendere le motivazioni e l’agire di questo prete fuori dagli schemi, anche se i mafiosi non tarderanno a cogliere l’effetto destabilizzante che stava producendo giorno dopo giorno questa sperimentazione.

Attraverso il racconto di numerosi protagonisti emergono le difficoltà, i dubbi, le tensioni di padre Puglisi e dei suoi collaboratori, Bianca Stancanelli individua nella solitudine il vero colpevole della sua fine violenta: le istituzioni e la società civile lasciano solo padre Puglisi nella sua battaglia per il riscatto sociale di Brancaccio.

In Cose di Cosa Nostra Giovanni Falcone scrisse profeticamente che «si muore perché si è soli. (…) Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato, che lo Stato non è riuscito a proteggere».
Per i boss del quartiere Brancaccio, padre Puglisi era diventato fin da subito un nemico da combattere con ogni mezzo: non tanto per le sue omelie contro l’omertà mafiosa, ma proprio per questa sua attività rivolta al recupero dei bambini, che toglieva all’organizzazione criminale il principale bacino di reclutamento di manovalanza a buon mercato.

L’attacco che padre Puglisi porta al cuore di Cosa Nostra non appartiene, dunque, ai canoni tradizionali dell’antimafia dell’epoca, ma colpisce giorno dopo giorno, con rara tenacia e ferrea determinazione, le fondamenta della cultura e della stessa identità mafiosa, quella degli uomini d’onore che, come nel caso dei boss dei boss Totò Riina, conservano gelosamente nel portafoglio l’immagine sacra della Madonna.

Anche per queste ragioni padre Puglisi sceglie di non avere rapporti con la politica – dice con franchezza di essere «allergico» ai partiti -, anche con quelli apertamente schierati contro il potere mafioso. Nella sua parrocchia non c’è diritto di cittadinanza né per gli uomini politici, né per i mafiosi: la sua diviene una sorta di “repubblica indipendente” che rifiuta i finanziamenti pubblici perché – come diceva don Puglisi – «per averli, e per conservarli dopo averli ottenuti, bisogna coltivare opportune alleanze, rendersi grati e dimostrare gratitudine, addestrarsi alla sottomissione: entrare, insomma, nel mercato della politica».

Quando la mafia decide di eliminare il prete-scomodo di Brancaccio, pone fine all’esistenza di un uomo, di un sacerdote, che in assoluta solitudine aveva tentato di attaccare frontalmente, attraverso il dialogo con i ragazzi, la cultura dell’omertà e dell’indifferenza, prima ancora che il sistema di potere mafioso e i suoi intrecci con la politica e l’economia.
La vicenda di padre Puglisi induce Bianca Stancanelli ad un amara quanto straordinariamente lucida riflessione finale, che mantiene intatta la sua attualità: «Noi laici, gli impegnati, quelli che determinano il corso del grande circo antimafia, e appendono e ritirano ritratti e patenti, non avevamo capito nulla di tutto questo.

Noi andavamo dietro gli idoli, e abbiamo lasciato solo questo piccolo sacerdote onesto, rigoroso e coerente. Perché l’antimafia è spesso teatro, e padre Puglisi non aveva il temperamento dell’attore. Ma quello che noi non avevamo capito, Cosa Nostra l’ha intuito al volo. Sempre, nell’indicare il nemico da abbattere, nel mettere a fuoco il motore che governa un intero processo, in breve: nell’identificare i propri nemici la mafia ha mostrato più talento di quanto l’antimafia non ne abbia dimostrato nel riconoscere e sostenere i propri amici. Al modesto prezzo di un proiettile, Cosa Nostra ha azzerato una rivoluzione possibile. L’ha stroncata».

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