A partire dagli anni Cinquanta, Truffaut e i suoi sodali rivoluzionari della Nouvelle Vague cambiarono il cinema con la “politica degli autori”. Il cinema dell’Italia corrente fa invece i conti con la “politica degli attori”, e non è esattamente lo stesso affare. A scorrere l’elenco dei film distribuiti in sala nelle settimane o in uscita, colpisce la quantità di opere di attor-autori: scrivono, recitano, dirigono. Vezzo? Calcolo produttivo?
Prendiamo il Festival di Cannes (dal 15 al 26 maggio) dove, insieme con l’attesissimo nuovo film di Paolo Sorrentino La grande bellezza (e a sorpresa Salvo del duo Grassadonia-Piazza), ci sarà anche l’esordio di Valeria Golino, Miele, in concorso nella sezione “Un certain regard” (che in patria ha già raccolto buoni consensi critici). E per rimanere a Cannes – pur non trattandosi di produzione italiana – va segnalato che nella gara principale – unica donna – c’è un’altra attrice italiana (o vuol forse esser detta francese, come la sorella Carlà già première dame?) Valeria Bruni Tedeschi che presenta il suo nuovo film da regista Un château en Italie.
Ma le due Valerie, pur nella diversità produttiva delle rispettive pellicole, non sono casi isolati di attori che si fanno autori. Oltre alla Golino, abbiamo visto passare per le sale – in qualche caso ci sono ancora – altri quattro esordi: Razza bastarda di Alessandro Gassman (che ha raccolto parte del talento recitativo del padre, ma forse pretende troppo dietro alla macchina da presa, con una storia parecchio artificiale sui marginali di periferia), La città ideale di Luigi Lo Cascio (strepitoso caso di film anti-profetico: basti pensare che la città ideale del titolo – e non c’è alcuna ironia autoriale nella definizione – è Siena, città come poche infognata nella crisi finanziaria per le note vicende del Moloch di Mps: altro che ideale), Tutti contro tutti di Rolando Ravello (che a differenza di Gassman e Lo Cascio come attore ha un appeal sul pubblico che per eufemismo diremmo non dimostrabile) e infine “Il principe abusivo del tragico Alessandro Siani, che compensa lo sconforto dell’esito artistico – perdonate la parola grossa, “artistico” – con eccellente performance al botteghino: ma la comicìte com’è noto è patologia piuttosto redditizia, ci siamo dovuti sorbire anni di Pieraccioni e Salemme, ora ci toccano i vari Bruno e Siani (fa capolino ogni tanto anche Albanese, ultimamente soggettista-sceneggiatore-interprete del pessimo laqualunquistico Tutto tutto niente niente, ma si confida che riprenda quota – è pur sempre un grande attore – nelle mani di Gianni Amelio con la commedia L’intrepido ora in produzione).
La fioritura attorial-autoriale della stagione non è finita qui. Con buona resa in sala si è presentato Edoardo Leo con Buongiorno papà, Michele Placido è solo regista nel poliziesco Il cecchino (produzione e ambientazione francese dall’ottimo inizio e dal modestissimo finale), Sergio Rubini è invece fantuttone nel prossimo Mi rifaccio vivo, e anche una vecchia gloria come Giancarlo Giannini a fine maggio torna in campo col benaugurale Ti ho cercata in tutti i necrologi (ma da quanti anni il maestro Giannini non recita in un bel film?). Indiscusso protagonista da attore e autore della nostra scena teatrale è Pippo Delbono, di recente scoperto anche dal cinema: ci prova anche lui con l’audiovisivo, con due prodotti come Amore carne (film girato con un telefonino, in uscita a giugno) e Il sangue, sulla figura dell’ex brigatista rosso Giovanni Senzani (in fase di montaggio).
Più o meno il panorama attuale sull’attor-autorialità è questo: commedia diffusa, qualche sparsa pretesa, sporadici spunti belli. Si dirà: niente di nuovo, è tutto il cinema italiano che qualitativamente non è granché. Affermazione non solo frettolosa: ma anche clamorosamente falsa. Sorrentino e Matteo Garrone – è vero, lo si ripete retoricamente di continuo, ma è così – sono grandissimi registi ormai riconosciuti ad ogni livello. È un talento mondiale, per quanto poco ingiustamente conosciuto in Italia, Michelangelo Frammartino (il Moma di New York in questo periodo sta proiettando il suo film-installazione, Alberi). Un regista isolato come il sardo Giovanni Columbu ha fatto un piccolo capolavoro col suo recente Su Re. In ogni stagione si scoprono nuovi cineasti in grado di affermarsi anche nei circuiti fuori dai nostri confini: giusto per citarne qualcuno, Valerio Mieli dello splendido Dieci inverni, Alice Rohrwacher di Corpo celeste, Claudio Giovannesi del recentissimo Alì ha gli occhi azzurri. È forse vero che si produce molta roba fatta male, forse che si produce troppo in generale per quanto il mercato possa reggere: ma forse è più vero ancora che spesso non si produce quel che invece si dovrebbe, preferendo presunte scelte sicure all’insegna del «massimo risultato col minimo sforzo» e non sostenendo a sufficienza il lavoro di ottimi professionisti che pure ci sono: nel cinema d’autore, ma anche nel cinema medio, fondamentale per la tenuta dei conti del comparto.
Al riguardo val la pena segnalare che tra social network e mail private girano lettere di giovani sceneggiatori che giustamente denunciano l’indecente pratica in diffusione di «molti produttori (anche grosse case di produzione, ed è di solito in quel caso che fa più male) di sfruttare il lavoro delle nuove leve, facendo pressione sul fatto che “sei giovane e ti devi ritenere fortunato che ti faccio lavorare”. Dobbiamo lottare per essere pagati, anche pochissimo, e non lavorare gratis. Perché se è gratis, non è lavoro. Dobbiamo lottare perché il pagamento, sempre più esiguo (facciamole queste cifre: 1.500/2.500 euro per una sceneggiatura, a volte da dividere con altri autori, o 500 euro per un soggetto, sempre da dividere con altri autori) arrivi almeno prima delle riprese, e non a uno o due anni dalla consegna del copione. Dobbiamo lottare per non vedere dimezzato il nostro compenso a lavoro consegnato (e contrattualizzato, in alcuni casi) perché tanto sono sicuri che nessuno gli farà causa per pochi euro».
Anche questo è lo stato dell’arte, e dell’industria (peraltro non indifferente, viste le sue dimensioni occupazionali). Invece di promuovere le professionalità, innescando un circolo virtuoso tra creatività e ritorno commerciale, c’è la tentazione della “sicurezza”, peraltro tutta da dimostrare. E allora vai col nome famoso, pronto a qualunque uso: attore, soggettista, sceneggiatore, regista, se strimpella la chitarra pure musicista… Ma “la politica degli attori” è davvero quel che serve al nostro cinema?