Era il ventinove di maggio del 1953, quando l’avventuroso neozelandese Edmund Hillary ed il fidato e affidabile sherpa indiano-nepalese Tenzing Norgay posero piede sulla cima del mondo. Scalando la parete Sud e in equilibrio sulla cresta Sud-Est, raggiunsero la vetta del monte Everest, più in alto di ogni altra cosa, con i suoi ottomilaottocentoquarantotto metri di altitudine.
Fu un’impresa a dir poco memorabile e, per lasciare un piccolo segno del loro passaggio lassù, nei quindici minuti che trascorsero in vetta, Edmund posò nella neve una piccola croce e un gatto di stoffa, mentre Tenzing lasciò un po’ di cioccolato, alcuni biscotti, un pacchetto di caramelle, una matita rossa e blu della figlia Nima e le bandiere del Nepal, dell’India, della Gran Bretagna e delle Nazioni Unite.
il racconto
BEATO TE, CHE SAI LE LINGUE
Era un po’ indiano e un po’ nepalese, il signor Tenzing Norgay, secondo, per pochi passi, a metter piede sul tetto del mondo. Ma non è chiaro se, appena nato, il primo ue lo abbia strillato in una lingua o nell’altra. Capita sempre così, con questi bilingui, e a Tenzing capitò già il primo giorno di vita. Né fu utile procurarsi un dizionario, perché pare che in India i neonati, per dire ue, dicano ue, e che in Nepal ue si traduca invece in ue. In italiano, si sa, ue si dice ueee, con tre e.
Un bell’inghippo, non c’è che dire. E se ci fosse qualcosa da dire, non si saprebbe in che lingua dirlo. Inghippo in ungherese si dice fogás e in catalano agafar, ma sempre un inghippo resta.
Tenzing non ci badò poi tanto, anzi, crescendo cominciò a provarci gusto e a scuola, quando esclamava qualcosa in nepalese e la maestra trovava un errore, dava colpa agli indiani e viceversa. Furbo, furbissimo!
Per divertirsi ancor di più, ogni tanto ci infilava una frase in lingua urdu, oppure in hindi, che sono lingue del subcontinente indiano, come mille altri dialetti, mentre il sanscrito è la lingua ufficiale, da scrivere in bella grafia, facendo bene attenzione alla punteggiatura. Come si dica ue, o inghippo, in queste lingue, non chiederlo a me, anche perché non solo i suoni sono diversi, ma anche gli alfabeti e tutta la scrittura e come minimo non ci capirei nulla. Tenzing Norgay, invece, ormai ragazzino, saltava da una all’altra, come se le lingue fossero le rocce delle sue belle montagne. E già che c’era, saltava spesso anche dalle rocce, su e giù dalle cime e di cime, dalle sue parti, ce ne erano in ogni angolo. Anzi, c’erano più cime che angoli ed è ancora oggi così.
E tra salti, passi e passeggiate, il passo fu breve, per lui ormai giovanotto, di entrare nella comunità degli sherpa, così lassù, che quasi mi gira la testa. Tanto per farsi benvolere, imparò anche la loro lingua in un week-end, aggettivi e avverbi compresi, con la sola eccezione di ue.
Finché un giorno qualcuno gli disse hello!
Inutile cercare nei dizionari mandati a memoria; inutile pensare a qualche vocabolo che suoni un po’ in quel modo: quella parolina doveva arrivare da un mondo lontano, probabilmente portata dal vento di qualche tempesta e di tempeste, nell’Himalaya, ce ne sono più spesso che no. Lui rispose con un sorriso e i due diventarono amici. Ma a sera, terminata la cena, si mise d’impegno a imparare anche quello strano ed esotico inglese e al mattino seguente, con il sole a far capolino da dietro il monte, disse good morning a tutti e si preparò per la scalata.
Già che c’era, il signor Tenzing Norgay, ormai uomo forte e fiero, pensò bene di imparare pure il francese, con gli accenti al punto giusto e persino qualche frase in italiano, che se avesse cominciato da lì sin da bambino, forse per te e per me sarebbe stato tutto più facile, non credi? E poi, non vorrai mica far tutta quella fatica a scalare la montagna più alta del globo terracqueo, senza prenderti la soddisfazione, una volta arrivato, di dire ciao mamma?!
Era così, il signor Tenzing Norgay, che sin da bambino lo sapeva che un giorno sarebbe arrivato lassù e da quel giorno avrebbe avuto mille cose da raccontare, altroché! E se le avesse raccontate in mille lingue… mille per mille fa un milione! Così pensava, e lo pensava in tutte le lingue che conosceva.
Conosceva, capiva e parlava volentieri ma, guarda un po’, non sapeva scrivere, proprio per nulla, nonostante gli sforzi della maestra. Ma va capito, poveretto: lassù sull’Himalaya fa un freddo, ma un freddo, che se tieni una penna tra le dita ti si ghiacciano i polpastrelli, quindi molto meglio la voce, più calda che mai. E al ritorno dall’Everest, con l’amico Edmund a fare sì con la testa, raccontò e raccontò, e tutti a prendere appunti senza perdere nemmeno una vocale, per pubblicare mille libri in mille lingue… e i milioni adesso sono due!
Ma attenzione a non sbagliare, che di sicuro Tenzing Norgay, ormai anziano, accanto al camino si sarebbe lasciato leggere le proprie memorie dai nipotini e, se avesse trovato una virgola fuori posto… si salvi chi può!
la fotografia
© David MacIntyre
Vent’anni e qualche giorno prima della conquista dell’Everest, altri due avventurosi uomini si trovarono faccia a faccia con la vetta del mondo. Il tre aprile del 1933, a bordo di due barcollanti biplani, i piloti scozzesi David MacIntyre e Douglas Hamilton sorvolarono la cima in un’impresa che, all’epoca, pareva a dir poco ardita.
Le poche fotografie che scattarono dall’alto risultarono molto utili a Hillary e Norgay per l’ascesa del 1953.
il video
Se è vero che Hillary e Norgay arrivarono sulla cima del mondo, va detto che da soli non sarebbero arrivati da nessuna parte e, probabilmente, nemmeno sarebbero partiti.
La spedizione del 1953 era composta da tanti altri piccoli eroi. Il colonnello John Hunt era il capo della spedizione e Charles Evans il suo braccio destro; Tom Burdillon, Alfred Gregory, Wilfrid Noyce, Michael Westmacott, Charles Wylie, George Lowe erano alpinisti e battipista, mentre Sherpa Annullu era una guida come Tenzing. Griffith Pugh e Michael Ward erano i medici al seguito, George Band il meteorologo e Tom Stobart il cameraman. È soprattutto grazie a lui che questo video, che è un vero e proprio film, è stato realizzato. E se non sai l’inglese guardalo lo stesso, che le immagini parlano da sole.
la pagina web
Vuoi vedere l’Everest minuto per minuto per scoprire che tempo fa lassù? Niente di più facile! Un paio di anni fa, infatti, gli associati del comitato EvK2CNR, che propone e realizza progetti di ricerca scientifica e tecnologica in alta quota, hanno posizionato, alla bella altitudine di cinquemilaseicento metri, una webcam che è consultabile con un semplice click più o meno dalle due del mattino a mezzogiorno, che poi sono le ore in cui è giorno in Nepal.
i nostri eroi
Era uno scalatore inglese, George Herbert Leigh Mallory e, con tutti quei nomi da portarsi appresso, chissà se in salita faceva più fatica…
Magrolino e con il naso a punta, non ci pensò due volte quando gli venne proposto di partecipare alla prima, avventurosa spedizione inglese in Himalaya e sulle pendici del monte Everest. Corse in soffitta e se ne scese due minuti più tardi con lo zaino pieno di corde e ramponi, guanti e piccozza, occhiali da sole, chiodi, moschettoni e un cappello di lana con le prolunghe di qua e di là per le orecchie. Let’s go!
Fu lui, nel 1921, esplorando le rocce e i ghiacci, a intuire una possibile via per la scalata fin sulla vetta e l’anno successivo ci provò seriamente. Purtroppo una tempesta lo ricacciò a prendere il tè delle cinque sotto una tenda al campo base, ma non gli impedì di essere il primo umano a raggiungere gli ottomila metri di quota.
Nel 1924, il giorno otto di giugno, ecco che Mallory ci tentò di nuovo, questa volta accompagnato dal giovane amico Andrew Irvine. I due lasciarono la tenda alle prime luci dell’alba, per affrontare con grinta la parete Nord, ma se ce la fecero oppure no, nessuno lo sa.
Un loro compagno li intravide di lontano poco dopo mezzodì, ma poi nulla: la neve li travolse e fu la fine. Che tristezza… Sì, ma George e Andy stavano ancora salendo, o vennero sorpresi dalla tempesta sulla via del ritorno? Ecco, questo nessuno lo sa.
Solamente nel 1999 una spedizione trovò lassù il corpo dell’eroico Mallory, perfettamente conservato dal ghiaccio. I più romantici notarono che nella giacca, ancora in ottimo stato, non c’era traccia della fotografia della moglie Ruth, che lo scalatore avrebbe voluto lasciare sulla cima e questo dettaglio fece rinascere molti dubbi, sopiti per decenni.
Che sia stato davvero Mallory, con tutti i suoi nomi, il primo uomo a conquistare l’Everest? Questo, da allora ancor oggi, nessuno lo sa.
Sir George Everest aveva la mano ferma e lo spirito d’avventura, più tutta la pazienza che ci vuole a segnare con precisione e pignoleria le strade e i sentieri, i confini tra le nazioni, le creste dei monti, le anse dei fiumi, le coste lungo mari e oceani, tracciando con tocco leggero carte geografiche tra le più ricche e particolareggiate.
Dal Galles, dove nacque alla fine del Settecento, si trasferì in India con il bell’incarico di topografo generale e per qualche decennio calcolò, misurò e verificò, in centimetri e in pollici, ogni cantuccio di quel territorio, dalle spiagge di sabbia e di scoglio fin su, in cima alle montagne più alte del Nepal, ricoperte di ghiaccio e di neve.
Fu nel 1865 che il suo successore, tale Andrew Waugh, gli dedicò la montagna più alta del mondo, che da allora si chiama così e non più Cima XV, che era un nome po’ troppo tecnico. In tibetano, però, continua a chiamarsi Chomolangma, che significa più poeticamente Madre dell’universo, mentre per i nepalesi è lo Sagaramāthā, che in sanscrito vuol dire Dio del cielo.
Il pianeta Terra è bello e rotondo, si sa, basta andare nello spazio e guardar giù. Ma se sulla bellezza non si discute, quanto a rotondità, a esser pignoli, non è del tutto così. Certo non è un cubo, questo no, ma il globo è un po’ schiacciato ai poli e del tutto rotondo non si può dire che sia.
E con ciò?
Con ciò succede che, calcolando le altitudini dal livello del mare e facendo una bella media tra alta e bassa marea, l’Everest è senza dubbio la cima più alta, con i suoi quasi novemila metri, e il K2 la seconda. Ma se si parte dal centro della Terra le cose cambiano, altroché.
La montagna regina diventa il Chimborazo, nel bel mezzo dell’Ecuador, la cui cima dista qualcosa come seimilatrecentottantaquattro chilometri e quattrocento metri dal centro del pianeta. L’Huascaran del Perù è secondo per pochi passi; il Cotopaxi, anche lui in Ecuador, terzo e medaglia di bronzo, il romanzesco Kilimanjaro, in Tanzania, buon quarto e il nostro Everest solamente quinto, con più di duemila metri di distacco dal primo.
quattro domande a…
… Zeus
Egregio Zeus, lei se ne va in giro dicendo che l’Olimpo qua e l’Olimpo là, ma il suo Olimpo non è neanche tremila metri, mentre l’Everest quasi novemila. Come la mettiamo?
La mettiamo che sul mio Olimpo il clima è piacevole e godereccio, abbiamo il mare laggiù e una vegetazione rigogliosa. L’Himalaya, invece, è a dir poco inospitale, con i suoi ghiacci, le sue tempeste di neve e il mare da nessuna parte. Mi creda, più importante dell’altitudine è essere all’altezza. E detto questo le svelo anche che sul pianeta Marte il monte più alto di tutti si chiama proprio Olimpo, non altro, ed è alto il triplo del terrestre Everest…
E se al posto delle Olimpiadi si disputassero le Everestiadi?
Impossibile. Suona pure male. Forse forse le Olimpiadi invernali le si potrebbe anche organizzare sulle alture del Nepal, ma non so se gli atleti ne sarebbero felici. E probabilmente la fiaccola si spegnerebbe sotto prima nevicata. No, nemmeno una volta ogni quattro anni, per carità.
Gli scalatori estremi, però, vanno in Nepal, mica vengono sull’Olimpo.
La mia Grecia è la patria della democrazia, ognuno è libero di andare dove gli pare. Non mi sogno di fargli cambiare idea. Quel che conta è che non debba mettermi io a salire fin oltre le nuvole, con l’aria rarefatta, dal campo base alla vetta. Sai che fatica?!
Però, in quanto padre di tutti gli dei, poteva dare un segno di forza e potenza e portare tutti i suoi colleghi dei lassù, più in alto di ogni cosa.
Se è per questo avrei potuto abitare al centro della Terra, o al Polo Nord come Babbo Natale, ma allora cosa sono il capo a fare? In quanto dio di quasi tutto mi sono tolto lo sfizio di abitare in un posticino niente male e non me ne pento per nulla. Pure i miei colleghi dei, come li chiama lei, me ne sono grati. La prossima vita, magari, anziché il dio farò l’esploratore e ne riparleremo, ma fino ad allora, davvero, mi va bene così.
ti consiglio un libro
Autori Vari – RACCONTI DI PARETI E SCALATORI – Einaudi
Quando arrivi lassù e vedi il mondo dall’alto, una sola cosa ti resta da fare, al ritorno in città: raccontarlo. Perché lassù chissà cosa c’è, e tutte le cose che chissà cosa sono, sono molto più belle da narrare, da leggere e lasciarsi raccontare. Qualcuno ricorda la neve, altri l’aria gelida e rarefatta; chi descrive il sole e chi la salita e la fatica; una storia ti farà sorridere, un’altra ti darà un brivido lungo la schiena.
È così, la montagna: uguale per tutti, ma per ognuno a modo suo, un po’ come i libri, le storie e i racconti, che se li leggi due volte, sono due storie, due libri e due racconti diversi.