In Laguna molti film di famiglie difficili e poche star

Il Festival di Venezia

Se hai i grandi nomi sei servo dei grandi nomi, se non li hai stai facendo snobistico cineclubbing in forma di festival, palloso e deludente… La rogna è grande e seppur elegantemente ha inteso sottolinearla, Alberto Barbera, direttore della Mostra del Cinema di Venezia, presentando l’edizione di quest’anno. La selezione ha imboccato una strada rischiosa, senza grandi star (chi non aveva il film pronto, chi ha preferito andare altrove), aprendo per la prima volta a due documentari nel concorso principale superando così il razzismo fra i generi, e proponendo molte opere di lunghezza quasi metafisica (225 minuti, 244, 220, 175…). Impossibile dare un giudizio, vedremo.

Di certo sarà un’edizione che avrà la famiglia come suo filo rosso, rappresentata in un’ottica tutt’altro che consolatoria e rassicurante: violenze sui bambini, scomparsa della figura paterna, abbandono di minori… Cinema di famiglie, ma non per famiglie.

Citazioni particolari, da parte del direttore, verso le opere di due maestri orientali come Hayao Miyazaki, che presenta il film d’animazione Kaze tachinu, e Tsai Ming-liang con Jiaoyou. Ma anche per il francese Philippe Garrel che porta La jalousie. Torna a Venezia l’ultimo italiano ad aver conquistato il Leone d’Oro, Gianni Amelio, che per L’Intrepido vede protagonista Antonio Albanese. Emma Dante, tra le protagonista del nostro teatro, debutta al cinema direttamente nel concorso con Via Castellana Bandiera, che ha tratto da un suo romanzo “palermitano” di qualche anno fa. Spazio anche a Gianfranco Rosi, che firma uno dei due documentari in concorso: Sacro Gra, dedicato al Grande Raccordo Anulare, raccontato nel corso di un lungo lavoro di ricerca durato tre anni sulla striscia autostradale che circonda Roma, e che era stata al centro di un suo precedente lavoro breve dedicato a Renato Nicolini, Tanti futuri possibili.

L’altro documentario è invece firmato da Errol Morris ed è tutto centrato su una delle figure più controverse della politica contemporanea: Donald Rumsfeld. The unknown known è il frutto di 35 ore di intervista, concentrate in un’ora e mezza, al più influente dei ministri di George W. Bush, e promette di fare molto discutere. Dagli Usa giunge anche Parkland dell’esordiente, ma già affermato sceneggiatore e giornalista, Peter Landesman, che ricostruisce i quattro giorni che seguirono l’attentato di John Kennedy a Dallas, visti dall’interno dell’ospedale Parkland, dove il presidente fu ricoverato, e dove furono poi portati l’attentatore Lee Osvald e l’omicida di quest’ultimo, Jack Ruby. Una storia effettivamente intrigante, che arricchisce il lungo filone kennedyano del cinema americano.

Grandi attese per alcune pellicole fuori concorso firmate da grandi maestri del cinema contemporaneo: Moebius di Kim Ki-duk, Leone d’Oro lo scorso anno con Pieta, e quest’anno presente con un film che già promette scandalo tra evirazioni e incesti; The Canyons di Paul Schrader, un noir ambientato a Los Angeles sull’ossessione del sesso; Die Andere Heimat di Edgar Reitz, che chiude la trilogia sulla Patria Germania andando indietro nel 1800; Che strano chiamarsi Federico, di Ettore Scola, dedicato a Fellini, suo vecchio amico di gioventù.

Sorprese potrebbero arrivare dalla sezione “Orizzonti”, dedicata al cinema più sperimentale, in cui si distinguono l’opera prima della stilista francese Agnes B., Je m’appelle Hmmmm… sul tema della pedofilia, tratto da un’esperienza personale; il film giapponese Jigoku de naze warui di Sono Sion; i lavori Piccola Patria e La prima neve dei due italiani Alessandro Rossetto e Andrea Segre.

L’Italia è la nazione più rappresentata nella selezione ufficiale con ben 21 titoli (italiano è anche il presidente della giuria principale: Bernardo Bertolucci). Va aggiunto che erano ben 150 i lungometraggi e 78 i documentari di casa nostra sottoposti ai selezionatori (che per quest’anno hanno dovuto scegliere in due mesi tra ben 3.470 film inviati da tutto il mondo). Segno di una effervescenza produttiva che stride con le difficoltà economiche del settore, su cui nei giorni scorsi si è registrata la dura presa di posizione delle associazioni del comparto che hanno minacciato di lasciare le sale veneziane se fossero comparsi rappresentanti del governo. Il nodo della controversia è il rifinanziamento del tax credit, su cui – sostiene il presidente della Biennale, Paolo Baratta – alla fine potrebbe ricomporsi la frattura, modificando la modalità della sua erogazione.

Quanto alle polemiche sul rifiuto da parte di alcuni nostri autori di partecipare a Venezia per paura dei fischi (il riferimento è a Daniele Luchetti, che per l’anteprima di Anni felici ha preferito al Lido il festival di Toronto, in programma negli stessi giorni), Barbera ha sottolineato che “la politica dei fischi” della critica italiana è una leggenda metropolitana, basandosi peraltro su una constatazione: mai nessun film italiano ben riuscito è stato fischiato. Nessun pregiudizio a priori, quindi. Il problema è piuttosto cambiare la mentalità: non vincere non vuol dire demeritare né avere una patente negativa. E questo vale, sostiene Barbera, soprattutto per i media, che non devono montare polemiche sui premi mancati. Perché più importante è partecipare bene. E a questo punto, più che Lumiere, siamo in zona De Coubertin.

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