Foto e ritratti dell’ex presidente Gamal Abdel Nasser sono stati tra i primi gadget ad essere venduti dai venditori ambulanti in piazza Tahrir, dopo le rivolte del 2011. In quegli stessi giorni, decine di macellerie aprivano nelle aree popolari per vendere carni delle industrie militari a metà prezzo.
L’esercito egiziano ha sempre favorito la modernizzazione dell’economia nazionale, ma negli ultimi decenni ha preferito salvaguardare interessi corporativi acquisiti piuttosto che contribuire allo sviluppo del paese.
Se in caso di crisi politiche l’esercito è intervenuto in favore dell’élite al potere, è prima di tutto per difendere i suoi interessi economici e le sue conquiste corporative. Da una parte, la riforma agraria promossa da Nasser non ha toccato gli interessi dei militari, dall’altra, politiche di nazionalizzazione economica e, successivamente, liberalizzazioni hanno accresciuto l’influenza dei militari nell’economia egiziana. In seguito, uno stato meno forte ha gradualmente aumentato lo spazio occupato dai militari nei settori pubblico e privato. Infine, interconnesse élite militari e politiche hanno permeato gli ingranaggi dello stato come promotore di sviluppo economico nell’Egitto post-coloniale, fabbricando una società e un’economia militarizzate. E così, il potere militare in Egitto ha iniziato a difendere i privilegi conquistati più che lottare per una sua funzione autonoma all’interno dello stato.
In Egitto, le politiche di liberalizzazione (infitah) sono state avviate nella metà degli anni Settanta dal presidente Anwar al-Sadat, in seguito al fallimento del modello nasserista, e sono state rafforzate da Hosni Mubarak, negli anni Ottanta e Novanta, trasformando lo stato da promotore di sviluppo a gestore dell’economia. La logica di Mubarak era «meno stato più esercito». Questo mutamento non è stato conseguenza della crisi dello stato ma del cambiamento nella strategia delle élite politiche e militari o di un aggiustamento strutturale per la loro sopravvivenza. Ciò ha contribuito alla crescita degli interessi dell’esercito con il ricorso a estese privatizzazioni (per esempio nel turismo e in agricoltura), con la separazione della proprietà delle industrie dal management, che ha corrisposto con la creazione di joint ventures con capitali privati stranieri. E così, se, da una parte, come effetto delle politiche di infitah, i militari si sono trasformati in élite imprenditoriali, dando a ufficiali, o a civili a loro connessi, ruoli di gestione economica, dall’altra, per la minaccia di guerre regionali, l’esercito egiziano ha controllato una quantità sempre maggiore di spesa pubblica e di aiuti militari internazionali. I militari egiziani sono diventati editori dei maggiori quotidiani, hanno acquisito il controllo delle industrie di produzione di prodotti per uso civile dalle lavatrici ai medicinali, al di fuori delle tradizionali industrie di armamenti e tecnologia militare.
L’esercito controlla oggi in Egitto anche industrie che producono o lavorano beni di prima necessità dal latte alla carne fino al pane. Non solo, i militari sono impegnati nell’industria turistica con il controllo diretto di alberghi e grandi resort. Per finire, i militari sono amministratori delegati di grandi aziende private e sono coinvolti nel mercato nero e nel contrabbando. Contemporaneamente, l’esercito ha accresciuto il suo peso come attore parassitario grazie ai vantaggi accordati ai militari dall’élite politica: manodopera a basso costo, esenzioni fiscali e nelle regole per la costruzione di immobili, sussidi e privilegi monopolistici. E così, in Egitto, come risultato delle politiche di liberalizzazione, élite politiche e militari sono diventate sempre più interconnesse e mutualmente dipendenti.
Fonte: Treccani.it
La giunta militare e il lato “popolare” dell’esercito
Gli ufficiali del Consiglio supremo delle Forze armate (Scaf), l’11 febbraio 2011, in seguito alle forzate dimissioni Mubarak, hanno preso il potere automaticamente, come risultato della loro lunga esperienza in guerre, in operazioni di difesa della sicurezza nazionale e per la diffusa presenza negli ingranaggi dello stato. Ma i 21 componenti della giunta militare, che hanno lasciato il potere nelle mani di Morsi e ora spingono per le sue dimissioni, sono stati rappresentati dalla stampa egiziana indipendente come cinici, rigidi tecnocrati, corrotti e indolenti, incapaci di intervenire per evitare episodi di settarismo e per evacuare lo spazio pubblico.
Con la caduta di Mubarak e la Dichiarazione costituzionale del febbraio 2011, lo Scaf ha avuto gioco facile nell’imporre procedure elettorali precipitose. Quando poi l’escalation delle violenze è diventata ingestibile, gli ufficiali hanno emesso decreti e dichiarazioni, ideato la stesura di principi sovra-costituzionali, usando la stessa retorica nazionalista per giustificare la loro presa del potere e fermare ogni compimento delle volontà rivoluzionarie. «Coerenza interna», «dovere storico», «solidarietà», «cooperazione», «dalla parte del popolo»: sono le parole più frequentemente usate in queste dichiarazioni per innescare un senso di appartenenza nazionalistica e rappresentare l’esercito come difensore di unità e stabilità. Come se non bastasse, le alte uniformi hanno rilanciato la loro immagine attraverso programmi televisivi di propaganda e grandi poster. Una delle immagini più significative, presente nelle strade principali, caserme e luoghi pubblici in Egitto, rappresenta proprio un soldato con in braccio un bambino, come simbolo di unità tra esercito e popolo.
Dopo la sua contestata elezione, il 30 giugno 2012, il presidente egiziano Mohammed Morsi, una volta concluso l’affollato giuramento in piazza Tahrir, ha tenuto il suo primo discorso all’Università del Cairo. È stata una delle rare occasioni in cui l’intera giunta militare è apparsa insieme in pubblico. Ambasciatori e politici erano seduti accanto al maresciallo Hussein Tantawi e al luogotenente maggiore, Sami Annan. Ma i giovani sostenitori dei Fratelli Musulmani gridavano dagli spalti: «Abbasso, abbasso il governo militare». I vecchi generali apparivano sempre più irritati, finché uno di loro si alzò al centro dell’auditorium e fece un gesto: mano nella mano, «l’esercito e il popolo sono mano nella mano», urlò il pubblico.
Da quel giorno, era chiaro a tutti come la Fratellanza fosse stata scelta, per la sua ampia base elettorale, come delegato temporaneo dell’esercito. La giunta militare aveva adottato i Fratelli Musulmani per ripristinare un’immaginaria distinzione tra élite politica e militare, in difesa delle conquiste corporative post-coloniali dell’esercito.