Bisogna stampare moneta per uscire dalla crisi! Bisogna svalutare l’euro per ridare competitività alla nostra economia! Queste teorie, che vantano illustri economisti tra i loro sostenitori e sono state protagoniste di campagne a loro sostegno su quotidiani nazionali, venivano già messe in dubbio da Leopardi. No, non da Giacomo, ma da suo padre Monaldo, figura interessante quasi quanto la sua. Anche lui era uno scrittore, un filosofo, un letterato. Ma di idee diametralmente opposte. Lui in tutta la sua vita rimase fedele ai principi reazionari che ricevette durante l’educazione in gioventù, credendo fortemente nella legittimità dei sovrani per diritto divino e nel potere temporale del Papa quale Vicario di Cristo. Ciononostante, fu comunque un uomo dalle letture variegate anche in ambito scientifico, tanto da, tra le altre cose, essere il primo a sperimentare all’interno dello Stato Pontificio il vaccino antivaioloso addirittura sui suoi figli e poi a renderlo in seguito obbligatorio per la città di Recanati nel 1816-17, periodo in cui Monaldo era gonfaloniere. Ma soprattutto pareva non essere insensibile allo studio dell’economia e della moneta. All’interno della sua Autobiografia, scritta nel 1824 e pubblicata postuma nel 1883, dedicava addirittura tutto un capitolo alla moneta, il quarantaduesimo, intitolato appunto Digressione sulla moneta. Lì fa un quadro molto esaustivo della situazione finanziaria dello Stato della Chiesa sotto il pontificato di Pio VI, rovinato da nepotismo e grandi opere inutili come un fallito tentativo di bonifica dell’Agro Pontino, che tenta di coprire la scarsità di denaro iniziando una vendita di titoli di Stato con alti rendimenti, ma senza alcuna copertura, tanto da dover poi iniziare il conio di monete in rame. Dopo, con l’invasione francese, gli abusi di “carta monetata” da parte del nuovo governo continueranno, fino a provocare il completo dissesto delle finanze pontificie. Ma leggiamo cosa ci racconta il padre del Poeta:
«Uno dei mezzi con cui il governo francese scarnì più spietatamente lo Stato nostro, fu l’abuso della carta monetata, la quale mi chiama un poco sulle monete dello Stato pontificio in quel tempo, perché di esse e delle vicende loro, nessuno probabilmente avrà scritto. Nell’infanzia mia, vale a dire nei primi anni del pontificato di Pio VI, lo Stato era ricco e però abbondava la moneta che è il rappresentante ordinario della ricchezza. […]».
Così durarono le cose fino alla rivoluzione di Francia la quale ignoro se o come potesse avere una influenza decisiva nella finanza dello Stato pontificio. Certo è che lo sbilancio della nostra economia publica cominciò allora e molti lo attribuirono alla generosità di Pio VI verso i suoi nepoti ed alle spese importate dal diseccamento delle paludi e da altre operazioni grandiose, ma queste non sembravano tali da rovinare uno Stato. Bensì poterono farlo congiunte a una grande malversazione, ed effettivamente all’epoca sunnominata l’erario pontificio incominciò ad emettere cedole spontaneamente, che allora non furono più fedi di credito per denaro depositato, ma carta monetata garantita dalla fede del Principe. In principio anche le nuove cedole corsero felicemente perché erano poche, e si riteneva sempre di poterle realizzare a suo comodo, ma cresciutane la massa, a poco a poco cominciarono a decadere sicché nell’anno 1794 si pagava il cinque o il sei per cento per cambiarle contro moneta effettiva. Nulladimeno il Governo o quelli che ne abusavano, gustata la facilità di ridurre pochi quinterni di carta in monti di oro e di argento proseguirono a stampare cedole senza misura e senza pietà, cosiché lo Stato ne rimase inondato, e le cedole rifiutate da tutti perdevano smisuratamente nel cambio. L’abbondanza delle cedole produsse necessariamente la scarsezza del monetario effettivo tanto per le speculazioni commerciali dell’estero, quanto perché chiunque aveva moneta la nascondeva gelosamente per farne mercato migliore. Per un certo tempo l’oro e l’argento pure scomparvero affatto dalla circolazione, e mi ricordo che nel corso di alquanti mesi non vidi un solo mezzo paolo di argento.
Un disordine provoca l’altro. Per riparare a questa eccessiva mancanza che paralizzava anche il piccolo commercio si coniò una quantità immensa di monete di rame, e miste, le quali però si poterono chiamare cedole anch’esse, perché non avevano di intrinseco il quinto del valore nominale. Allora incominciarono le distinzioni fra la moneta erosa e la moneta fina, e il valore di questa venne poi aumentato legalmente di un trenta per cento. La moneta fina così aumentata si chiamava moneta lunga, e considerata nel suo stato naturale si chiamava moneta curta, sicché 100 piastre effettive valevano cento scudi curti, overo 130 scudi lunghi. Ben presto la moneta di rame e la moneta mista soffrirono tanto discredito che si dové minorarne il valore legalmente, ma questa minorazione non essendo equivalente alla loro mancanza di intrinseco, aveva luogo un assurdo che forse era nuovo nella storia economica delle nazioni. Una moneta mista di sei paoli aveva scritto sopra di sé Bajocchi sessanta; legalmente valeva bajocchi quaranta, ma effettivamente si cambiava contro 18, o venti bajocchi fini curti di argento, più o meno, secondo le giornate, e secondo l’apparente intrinseco che aveva la pezza. Una madonna di rame aveva scritto sopra di sé Bajocchi cinque, valeva legalmente tre bajocchi di moneta mista, e si cambiava contro due bajocchi e mezzo di moneta mista, e contro un bajocco e mezzo di moneta fina curta. Così accadeva di tutte le altre monete, e ci vorrebbe un volume per narrare tutte le variazioni che accaddero in quei tempi nel sistema monetario.
I Francesi arrivarono allorché le cose nostre stavano in questo guazzabuglio e non lasciarono di approfittarne. Stamparono cedole finché trovarono il modo di metterle in commercio direttamente o indirettamente cambiandole a qualunque prezzo, e negli ultimi momenti il valore legale delle cedole fu di 96 scudi contro uno scudo fino. Quando le cedole non si trovarono più ad esitare neppure a peso di carta il Governo francese le dichiarò abolite affatto, e chi le aveva suo danno. Si disse che le cedole emesse sotto il Governo pontificio ascendessero a diecisette milioni di scudi, e che i Francesi ne stampassero per altri dieci milioni. Le cedole più piccole erano di tre scudi, e le maggiori, credo di diecimila.
Chiusasi questa miniera i Francesi ne aprirono un’altra emettendo una nuova carta monetata col nome di assegnati e di resti. I minori furono di un bajocco e i maggiori di uno scudo. Furono screditati nel nascere, e dopo pochi mesi vennegli tolto ogni corso. Si credé che se ne stampassero tre milioni di scudi, ma i Francesi ne trassero profitto immenso, come lo trassero coniando monete miste, e di rame, e riducendo a sanpietri e madonne una gran parte delle campane dello Stato nostro».
Quindi, quando si sente in tv dire che stampare nuova moneta o peggio, che bisogna tornare alla “sovranità monetaria” con la lira, sappiate che in passato un altro Stato ci aveva provato, con risultati disastrosi. E la Capitale era sempre Roma.
Twitter: @MatteoMuzio
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