Immancabili come le feste comandate sono usciti i dati sulla lotta all’evasione. Abbiamo appreso che dal primo gennaio a fine luglio le Fiamme Gialle hanno finalmente dato nome e cognome a 4.933 evasori totali, facendo emergere 17,5 miliardi di euro di imponibile sottratto al Fisco.
L’occasione non era una festa comandata – Ferragosto era già trascorso – tant’è che la diffusione dei dati è caduta casualmente il giorno dell’avvio del redditometro. I più maliziosi, sicuramente sbagliando, ci hanno letto un messaggio: occhio questa è la fine che fanno gli evasori, figuratevi ora che c’è il redditometro.
I numeri meritano invece uno sguardo più accurato. Che voglia andare oltre il il singolo semestre o anno fiscale. Se prendiamo i numeri resi pubblici e facciamo una proiezione spannometrica difficilmente sbaglieremo a immaginare che il 2013 si chiuderà con il disvelamento di circa 8.400 evasori totali pari a 35/40 miliardi di imponibile. Un dato più o meno organico alla realtà italiana. A partire dal 2001, infatti, la Guardia di Finanza è stata in grado di inchiodare alle rispettive colpe una media compresa tra i 7 e gli 8.600 evasori totali per anno. Un numero che non è variato nonostante col tempo la lotta (soprattutto quella comunicativa) all’evasione abbia visto una costante escalation.
Gli strumenti informatici e la capacità di incrociare le banche dati hanno compiuto importanti passi avanti eppure la statistica (a parte un aumento degli imponibili disvelati) non sembra rispecchiare le aspettative. Ragionevolmente possiamo immaginare che il nuovo redditometro che non si discosta dalla filosofia anti–evasiva degli ultimi governi non invertirà la rotta. Probabilmente perché la capacità di battere gli evasori totali ha un limite fisiologico. Formato, da un lato, dalle energie investigative dello Stato, e, dall’altro, dalla capacità di gettito e dalla parallela capacità evasiva/elusiva.
Gli strumenti di contrasto tendono infatti a concentrarsi su due categorie di evasori, partite Iva / lavoratori autonomi e medie Spa, che dal punto di vista sia virtuoso (capacità di gettito) sia vizioso (capacità di evasione) sono ormai spremute. Nello stesso periodo temporale il contrasto al lavoro nero (che era di fatto una prateria inesplorata fino alla fine degli anni Novanta) ha prodotto al contrario risultati molto interessanti in termini di imponibili fatti emergere e in termini di lavoratori pizzicati. I due valori si muovono in modo inversamente proporzionale (vedi tabella qui sotto), il che significa che si sta colpendo nel segno.
Clicca per ingrandire la tabella con i dati su imponibile sottratto al fisco, evasori totali e paratotali scoperti, lavoratori in nero e irregolari scopert
Immaginando un Paese che in termini di evasione ragioni sui numeri e sui risultati (e non sulla politica e sulla propaganda) varrebbe la pena provare a sondare con maggiore interesse altre praterie: l’evasione internazionale e quella legata alle multinazionali in grado di realizzare grosse operazioni di estero vestizione e transfer pricing.
Prendendo per buone alcune statistiche secondo le quali l’evasione italiana si aggira sui 180 miliardi di euro annui, vale la pena notare che almeno 80 riguarderebbero le attività delle criminalità organizzata. Circa 34 miliardi toccherebbero il lavoro nero (di cui abbiamo detto sopra), una trentina le società di capitali e gli autonomi. Lasciando alle grandi aziende un potenziale evasivo di 38 miliardi all’anno.
In una relazione dell’UIF di Bankitalia del novembre 2011 si legge:
«Sulla base di dati del Dipartimento delle Finanze, (…) nel nostro Paese, a fronte di un fatturato attribuibile per un terzo a 4.000 grandi imprese, per un terzo a 70.000 imprese di media dimensione e per un ultimo terzo a 7 milioni di piccole imprese (anche agricole), il 52% dell’IRES proviene dallo 0,8% delle imprese di maggiori dimensioni. Il 57% delle imprese che producono un volume d’affari fino a 500.000 euro versa appena l’8 % dell’imposta».
Un rapporto che l’opinione pubblica ha spesso visto in modo distorto: meno pago, più evado. E che si potrebbe invece invertire. Se così prendiamo i dati forniti dalla Gdf negli ultimi anni risulta che mediamente l’emersione legata alle attività di transfer pricing, di estero vestizione o di elusione internazionale viaggia sui 10/12 miliardi annui. Le statistiche dicono che questa prateria vale tre o quattro volte tanto.
Varrebbe dunque la pena concentrarsi su norme più stringenti che lascino meno spazio all’interpretazione, esattamente come suggerisce l’Ocse. Al fine di definire le quote di gettito transnazionali per le multinazionali ed evitare la fuga degli utili. Auspicando che avvenga in modo intelligente senza che le riforme normative siano dettate dalle esigenze di breve termine o peggio dal populismo mosso dalla politica schiacciata dai debiti pubblici. Questa è sicuramente teoria. Ma è certo che finché la lotta all’evasione si continuerà a fare a colpi di slogan e senza cultura della legittimità (ovvero non evado non solo perché è illegale ma anche perché è anti-economico), l’Italia non riuscirà a invertire alcuna rotta.
Da una recente ricerca di Friedrich Schneider dell’università di Linz appare che il sommerso in Italia vale 333 miliardi di euro, più o meno il 21% del Pil. Poco più della media europea che si attesta sul 18,5%. Il nero in Germania vale più di 350 miliardi, il 13% del Pil e in Romania 40 miliardi pari al 28% del Pil. Siamo sicuramente tra i peggiori, ma nulla che debba lasciare pensare a qualcosa di unico e senza paragoni tale da giustificare logiche da guerra al terrorismo. E coprifuoco.
La lotta all’evasione, come l’attività investigativa, dovrebbe essere condotta secondo due capisaldi silenziosi.
Uno, taglio delle tasse.
Due, statistica in grado di analizzare i flussi di denaro. Dal rapporto dell’UIF sulle attività svolte nel 2011 emerge un dato molto interessante.
Nel primo semestre 2011 i bonifici a favore di soggetti residenti in Paesi non cooperativi che sono stati accreditati presso intermediari localizzati in Italia hanno superato i 6 miliardi di euro. Un miliardo al mese. Si legge nel documento:
«Pur non potendosi escludere che tali flussi siano spiegati dagli interessi economici che detti soggetti esteri hanno in Italia, essi potrebbero rivelare, almeno in parte passaggi di disponibilità a favore di società di comodo estere controllate da soggetti residenti in Italia».
Incrociando questi dati, con quelli provenienti dai sistemi come S.AR.A (Segnalazioni Antiriciclaggio Aggregate) e dagli operatori specializzati (da notare che nel 2011 su 48mila segnalazioni solo l’1% era proveniente da operatori non finanziari e solo 52 da commercialisti) si potrebbe aggredire la vera “ciccia” dell’evasione e dell’elusione. Ma per fare ciò servono numeri certi e tempo. Due cose che la politica aborre.