Ci sono due termini che sempre più spesso viaggiano in coppia: tribunali amministrativi e bloccato. Infrastrutture, norme, porti e ciò che di primo acchito sembra essere una riforma. Il Tar ha bloccato l’uso esclusivo della lingua inglese in un’università del Nord Italia, ha bloccato la costruzione in Sicilia di uno dei quattro pilastri del Muos, il sistema radaristico americano in grado di estendere i principi dell’homeland security a mezzo mondo e perfezionare la gestione del personale militare nei teatri di guerra. Il Tar ha bloccato la costruzione della linea ferrata Rho–Malpensa, il treno dell’Expo.
Sono solo alcuni esempi di sentenze. Tutte in divenire. Perché poi le Amministrazioni impugnano e l’incertezza si trasforma in prassi. Finendo col nascondere agli occhi degli italiani la vera essenza della giustizia amministrativa: la tutela del cittadino dagli abusi del pubblico. Fine che si persegue con l’indipendenza del processo nel quale, rubando le parole al francese Jean Rivero, gli organi della giustizia amministrativa non siano più i giudici della legalità amministrativa, ma i giudici amministrativi della legalità.
I numeri invece descrivono in pieno la confusione nella quale sono immersi lo Stato e la giustizia italiana. Nel corso del 2012 (ultimi dati disponibili) sono stati presentati 9.300 nuovi ricorsi amministrativi presso il Consiglio di Stato e ne sono stati definiti più di 11.500. I ricorsi pendenti sono 24.600. In tutti i tribunali di prima istanza regionali risultano pendenti, sempre al 31 dicembre 2012, circa 350 mila procedimenti. Nonostante il pesante arretrato, sono stati definiti 92 mila procedimenti in più rispetto ai nuovi ricorsi presentati, complice l’entità del nuovo contributo unificato che, ha detto lo scorso gennaio Giorgio Giovannini, presidente del Consiglio di Stato,
«ha raggiunto e forse superato i livelli di guardia, oltre i quali può restare inciso lo stesso diritto costituzionalmente garantito alla tutela giurisdizionale».
Il rischio dunque esiste ed è concreto, anche se i magistrati contabili – nonostante le carenze di organico – negli ultimi tre anni hanno messo la quarta per smaltire gli arretrati. Altrettanto non si può dire sul fronte del miglioramento dei costi. Consiglio di Stato e Tar sono autonomi dal punto di vista finanziario dal 2001. Il bilancio preventivo per quest’anno mette in cantiere spese ed entrate che si aggirano complessivamente sui 229 milioni e 800 mila euro. Quasi il 77% delle entrate arriva dallo Stato. Venti milioni dal contributo unificato e solo lo 0,8% da entrate dirette o risparmi. Circa 167 milioni, più o meno il 73%, se ne escono per i costi di tutto il personale. L’informatica costa il 3,6% e oltre l’11 le altre spese vive. Cifre tutto sommato contenute. Ma non in calo. Nel 2011 a fronte di 210 milioni di euro complessivi stimati ne sono stati spesi circa 243 milioni. Per questi motivi, per il 2014 e 2015 gli obiettivi sono avere più dipendenti, ma anche miglior logistica e più telematica. Per allineare le strutture amministrative e giudiziarie all’e–government, «nell’obiettivo di attuare l’amministrazione digitale “aperta”», si legge in Gazzetta, «secondo gli indirizzi del governo in materia».
Ma tale riforma tiene conto dei costi diretti e dell’ottimizzazione del conto economico. Non dei costi indiretti per un’Italia ingolfata da 350mila cause pendenti. La giustizia civile così come sopravvive oggi nel suo complesso – non ci sono dati relativi a quella amministrativa – pesa secondo dati di Confindustria del 2011 il 4,9% del Pil tricolore, mentre, secondo le statistiche di Doing Business, l’Italia lascia per strada per via della giustizia lenta un 1% di Pil potenziale ogni anno. Romano Prodi, tra l’altro consulente dell’agenzia di rating cinese Dagong, l’altro giorno ha lanciato dalle colonne de Il Messaggero la sua personale proposta.
Dall’abolizione del Tar e del Consiglio di Stato l’Italia avrebbe un grande beneficio. Gli investitori non scapperebbero e si finirebbe col togliere un bastone incastrato nelle ruote della ripresa economica. Prodi non si riferisce certamente a quei 229 milioni, ma ai costi indiretti e al peso dei continui stop sui progetti infrastrutturali.
Scrive Prodi:
«Non essendo giurista non riesco a suggerire rimedi che non cadano nella rete degli azzeccagarbugli, ma nella difficile realizzabilità dell’abolizione del Tar chiedo di essere aiutato in modo che i ricorsi siano ammessi nei rari casi in cui conviene e che siano accompagnati dalle opportune garanzie».
Una proposta interessante. Almeno nella seconda parte. Abolendo in toto la giustizia amministrativa si azzererebbe la tutela del cittadino. E affidare gli stessi compiti a sezioni speciali di quella ordinaria sarebbe una salto nel vuoto che finirebbe una volta per tutte con lo scaraventare l’Italia all’ultimo posto di qualunque classifica mondiale. Al contrario mettere uno sbarramento all’ingresso per i ricorsi e un deterrente per quei cittadini che usano il Tar non a tutela dei propri diritti ma dei propri interessi sarebbe un intervento di civiltà. Al pari di un Parlamento e di una politica che in grado di legiferare in modo più semplice e trasparente senza lasciare ampie intercapedini che incitano i cittadini a sommergere i tribunali di ricorsi.
Le strade ci sono. Le novità introdotte dall’Europa permettono di valutare vie alternative (ma non sostitutive) alla giustizia amministrativa. Un po’ come avviene sul fronte civile con gli arbitrati. L’ordinamento inglese da tempo ha sviluppato un organico sistema di Administrative Tribunals, composti non da funzionari amministrativi ma da esperti del settore in posizione di indipendenza rispetto alle autorità o Enti coinvolti. I “Tribunali” trattano ogni anno un vasto contenzioso con esiti normalmente soddisfacenti per le parti. In questo modo i ricorsi prettamente giurisdizionali (applications) nell’ultimo decennio non sono stati più di 4 mila per anno. Pochissimo. Basti pensare che nel 2012 sono il Tal del Lazio ne ha ricevuti più di 12mila. In tema di novità ci sono anche le diverse relazioni economiche tra Stato e privati. «Un esempio importante è il complesso di rapporti che si usa definire come partenariato pubblico privato ove l’elemento dell’autoritarietà praticamente scompare», scriveva già nel 2006 la Fondazione Astrid, non distante dalla cerchia di Prodi, «ma rimane decisivo il rilievo del pubblico interesse, con deroghe al diritto comune. Dove si ripropongono schemi che non corrispondono più al sistema giuridico e politico quale oggi é». In tali casi potrebbe subentrare non tanto il difensore civico, ma nuove (per l’Italia) forme non giurisdizionali di soluzione ai contenziosi. Come le Adr, Alternative Dispute Resolutions. Nate negli Usa sono diffuse nel Nord Europa (dove è più forte il senso civico) e mirano a risolvere il contenzioso prima che arrivi alla sua fase amministrativa.
Insomma, l’Europa spinge l’Italia a mantenere strumenti di tutela del cittadino e al tempo stesso trovare strade alternative o parallele. L’Australia in temi di giustizia civile e per importi sotto i 10mila dollari ha imposto ai residenti l’uso di mail certificate e l’obbligo di non usare avvocati. Tutto avviene in via telematica e la pratica deve essere interamente definita nella sua fase preliminare, in modo da essere affrontata in una sola udienza. Non vogliamo né semplificare né confondere i due piani, amministrativo e civile, perché nel primo caso la controparte essendo l’amministrazione pubblica è intrinsecamente più forte. E quindi servono più tutele. Ma un sano sbarramento d’ingresso (magari con gli strumenti anglosassoni) consentirebbe ai giudici del Tar di affrontare solo le questioni di vera rilevanza pubblica e di spessore economico. Lasciando ad altre forme di giustizia le minuzie e gli aspetti tecnici.