Gerontophilia, il film che ruba la scena ai colossal

Venezia, Biennale del Cinema

«Venezia sta sull’acqua, manda cattivo odore / la radio e i giornalisti dicono sempre “Venezia muore”». Il maestro De Gregori (Miracolo a Venezia, un titolo che in pratica è un ossimoro) è un agente provocatore: vedesse il cratere muto e inquietante dell’abortito Palazzo del Cinema, la concorrenza sempre più azzannante di Toronto acchiappa-film, il Grand Hotel des Bains ancora chiuso in attesa di diventare un residence di lusso… Venezia muore, lo dicono sempre.

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Il direttore Alberto Barbera ha presentato la Mostra 2013 dicendo che sulla presenza del divi (che pure ci sono) avrebbe prevalso l’attenzione ai film. Per la verità, c’è un sottile messaggio subliminale esposto sul Canal Grande, dove campeggia il faccione vagamente tamarro di James Franco su un immenso cartellone pubblicitario della Gucci: il divo americano in concorso con Child of God potrebbe fare qualche scherzetto. Per intanto l’onore d’apertura è per Sandra Bullock e George Clooney persi nello spazio interstellare di Gravity, ma la scena rischiano di rubargliela i due tipi sconosciuti di Gerontophilia, che già dal titolo avete capito: in pratica un diciottenne di nome Lake esce pazzo per un uomo di ottant’anni di nome Mister Peabody. Il regista Bruce LaBruce, eclettico autore di documentari, art-porn, fiction e reportage per i giornali, coglie nel segno, giocando con lo scandalo.

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Intendiamoci, non che Gravity non valga la pena. Intanto va apprezzato che per produzioni così impegnative non si pretenda di allungare il brodo alle due ore e mezza o anche tre che in genere questi film durano: qui la storia si risolve in una novantina di minuti. Un segno di civiltà. Visivamente l’opera è assai ben risolto dalla messa in scena del bravo Alfonso Cuaron, che adotta un approccio autoriale – lunghi piani sequenza intorno a due soli personaggi immersi nella solitudine: detta così non sembra forse un film esistenzialista? – per raccontare il tentativo di salvarsi dei due astronauti Matt Kowalsky (Clooney, che qui porta lo stesso cognome del personaggio principale ultramacho di Un tram che si chiama desiderio, rude polacco sposato con una… Stella) e di Ryan Stone (Bullock, dotata invece di un nome maschile per scelta paterna, il che poi apre anche una finestra su cui chi sia il maschio vero tra i due). In mezzo a una pioggia di detriti siderali e collisioni pazzesche riprese con profondità di campo quasi abissali, e senza che tutti sembri una baracconata hollywoodiana intorno al tema “Houston, abbiamo un problema”, Bullock disegna la sua lotta per la sopravvivenza, dando (come solo un’attrice americana ultra-professionalizzata sa fare) un buona caratterizzazione. E poi, come son belle le aurore sulla Terra viste dall’immenso vuoto siderale…

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Da segnalare assolutamente un film israeliano: Bethlehem di Yuva Adler. Dimostrazione che Tel Aviv è davvero una frontiera avanzata del racconto audiovisivo: per la tv hanno partorito i format originali di In Treatment e Homeland, ma anche sul grande schermo si muovono benissimo. Giochi di potere, spionaggio, tradimenti, sullo sfondo il conflitto israelo-palestinese. Grande ritmo, grandissimo senso del racconto: non a caso il giovane regista si è diviso all’università tra la matematica e la filosofia, prima di abbracciare la settima arte. Un film che potrebbe diventare un’altra serie di culto.

Spazio finale a Nobody’s Home del turco Deniz Akçay. Gruppo di famiglia in un inferno: il padre non c’è, la madre è depressa, la primogenita ultra responsabilizzata, il ragazzo è inquieto, la minore parecchio intimidita… Niente di trascendentale, ma un ritratto di grande maturità e piuttosto universale di un nucleo allo sbando.