James Franco è un miracolato, molto meglio Philomena

La Biennale del cinema di Venezia

Finalmente un bel film. Il concorso per niente entusiasmante di questa Venezia 70 al quarto giorno ha una salutare fiammata con Philomena. Stephen Frears firma la regia di questa pellicola che riesce ad essere contemporaneamente un bel film sulla maternità, un bel film sulle radici e un bel film sul giornalismo. Prodotto, scritto e interpretato da Steve Coogan, a tutti gli effetti da considerarsi coautore con Frears, vede senza dubbio nell’interpretazione di Judi Dench il suo punto di forza, ma è ben lontano dall’essere esclusivamente una passerella per la proverbiale eccellenza della recitazione inglese. Il film intreccia sulla ricerca di un figlio perduto mezzo secolo prima dall’anziana irlandese Philomena, figlio sottrattole dalle suore perché illegittimo e venduto a una coppia americana, la storia di riscatto del giornalista Martin Sixsmith, uscito malissimo da un’esperienza come spin doctor in politica e a caccia di una nuova possibilità nel Quarto potere: lui in realtà vorrebbe scrivere un saggio sulla Rivoluzione d’Ottobre (è stato corrispondente della Bbc da Mosca, e ci tiene a farlo sapere) ma il mercato gli offre solo casi umani. È proprio quando si imbatte nella vicenda che avrà l’occasione della vita. I due partono per gli Stati Uniti alla ricerca del figlio Anthony (lautamente sovvenzionati dal giornale: pura fantascienza nell’Italia contemporanea). Si scopre che il figlio è morto di Aids, dopo aver nascosto pubblicamente la propria omosessualità perché nel partito repubblicano in cui militava era malvista: e lui era nientemeno che consigliere di Reagan e Bush senior. Solo che prima di morire…

Se tutto sembra un po’ inverosimile, ricredetevi: è una storia vera. I fatti si svolgono dieci anni fa e Frears presenta quella stagione post-11 settembre come una sorta di reaganismo riedito. Lo fa con gran senso dell’ironia: gioca con qualche stereotipo del giornalista cinico e ribalta quella che sembrava una tirata anti-cattolica in un elogio di chi nutre una fede autentica nonostante gli errori anche brutali dell’ecclesia. Film di scrittura più che di regia, ha tutte le carte in regola per centrare il successo planetario.

A proposito di successo, ci risulta davvero inspiegabile quello che accompagna in sede critica il miracolato James Franco. Un bravo attore certamente, peraltro mai interprete almeno finora di ruoli davvero leggendari, spacciato come una stella della nuova autorialità a stelle e strisce. Evidentemente è riuscito con qualche alchimia da buona stampa a far passare la quantità del lavoro con l’idea di qualità. Il fantuttone della California solo in questo 2013 ha smerciato tre film. L’ultimo, Child of God, lo ha rifilato a questa Venezia dopo aver fatto lo stesso col precedente Mentre morivo all’ultima Cannes. Non bastasse, qui al Lido nella sezione Orizzonti c’è anche un film che ha interpretato, Palo Alto, per la regia di una nipote di Coppola la quale ha tratto ispirazione da un libro a firma di… James Franco. E per finire, recita anche in un cortometraggio presente qui alla Mostra.

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Non passa giorno che non si conti una nuova iniziativa in Zona Franco (per dovere di cronaca, segnaliamo anche il suo faccione piuttosto tamarramente fotografato su uno sterminato cartellone pubblicitario di Gucci vista Canal Grande). Ma, ci chiediamo, non sarebbe meglio concentrarsi su un progetto e portarlo a termine al meglio senza disperdere l’attenzione in mille rivoli, piuttosto che consegnare film come questo inutile Child of God? Il divo Franco dall’indubbio spessore e dal frenetico attivismo immagina forse che rifugiarsi dietro le opere delle grandi penne più sanguigne della letteratura americana (Cormac McCarthy per questo film, il Faulkner di Mentre morivo), basti di per sé a fare un film all’altezza? Brutta illusione, prontamente commutata in delusione per lo spettatore che ha presente un capolavoro sulla pagina e si ritrova un mezzo aborto sul grande schermo.

Child of God, storia di un serial killer necrofilo nel Tennessee anni Cinquanta, ripropone un’America di provincia e di campagna che a questa Mostra è presente in almeno altre due opere in concorso: Joe di David Gordon Green e Night Moves di Kelly Reichardt. Sorvolando sulla drammatica mancanza di originalità che accomuna il terzetto, almeno Joe ha un bel gioco d’attori e Night Moves un’innegabile presenza di talento nella messinscena per quanto mal servita dal copione. Ma James Franco, James Franco cosa vuole da noi? A Fra’, che te serve?

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