Zone umide, il film scandalo dal finale super borghese

Facebook ha censurato il trailer

Qual è davvero radicale e anticonformista? Uno sguardo che indugia a ritmo di musica e battute scatenate su una ragazza che ne combina di ogni colore dalle parti delle sue “zone umide” (inutile spiegare quali), oppure quello che supera le regole del racconto tradizionale, disorienta lo spettacolo, e per due ore ci mostra cosa accade in una cabina della funivia che si impenna sui monti del Nepal?

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Zone umide” di David Wnendt comincia con una bella scaricata di emorroidi in un fetido cesso pubblico. Helen, la protagonista, interpretata con sprezzo del pericolo dalla ticinese Carla Juri, è un’adolescente con un gusto particolare per la zozzeria: quella in senso stretto, come residui corporali di vario genere, e quella ultra-sessuale. Basti dire che a un certo punto ci riserva il racconto della sua ossessione erotica: una bella pizza agli spinaci (e già questo…) innaffiata dallo sperma di quattro pizzaioli infoiati. All’anima.

Il film, tratto dal bestseller teutonico di Charlotte Roche, è il racconto delle disavventure sentimentali, psicotrope, alcoliche e ospedaliere dell’anti-borghese Helen, che elegge a compagni d’alcova tanto le verdure che tiene in frigo (con predilezione per le carote, se non ricordiamo male) quanto una prostituta ingaggiata perché senza proprio non si può stare. Comunque l’umidità corporale si risolve chirurgicamente (per quel problema iniziale di cui sopra) e soprattutto coi buoni sentimenti: in fondo lei è così maiala e sregolata perché dentro soffre a causa del divorzio dei genitori, che prova in ogni modo a rimettere assieme. Finisce come in un bel romanzo dell’Ottocento: si innamora del dolce e biondo infermiere che la assiste, un bravo ragazzo per una brava ragazza, anche se lei provava a nasconder la vera indole con condotte da porcellona luridona.

È bizzarra questa tendenza al capovolgimento della devianza nel canone ultra-tradizionalista. La divertentissima commedia “We’re the Millers” di Rawson Marshall Thurber con Jennifer Aniston e Jason Sudeikis, parla di uno strampalato quartetto dedito allo smercio di droga dal Messico agli Stati Uniti, e finisce come un elogio della vecchia cara sana famiglia: marito, moglie, figlio e figlia.

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MANAKAMANA – A new film from the Sensory Ethnography Lab from Sensory Ethnography Lab on Vimeo.

Lontanissima da questo cinema, sempre sostanzialmente rassicurante e accomodante, è invece un’operazione come “Manakamana” di Stephanie Spray e Pacho Velez. Diciamolo subito, la visione è ostica: 118 minuti ambientati in una cabinovia che sale verso il tempio della dea Manakamana. Un nonno col nipote, una donna sola, un trio di ragazzi metallari, una coppia anziana che porta una gallina in sacrificio, due signore che mangiano il gelato, una ragazza americana con la sua amica nepalese, quattro caprette da immolare. Ogni salita e discesa dura intorno ai dieci minuti, non ci sono stacchi, tutto è montato come se ogni episodio fosse in continuità con l’altro. Sembra un documentario, in realtà ci sono degli interventi che manifestano la manipolazione del racconto: i primi quattro episodi raccontano una salita, gli altri una discesa: quindi c’è una falsa consequenzialità del racconto. Gli unici suoni sono le parole, assai rade, e lo scorrere dei cavi della cabina. Il resto è silenzio, direbbe Shakespeare.

Camera fissa davanti a personaggi seduti, il paesaggio che cambia intorno a loro. Ci si impiega un po’ per entrare nella logica del film (il rischio è lasciare la sala dopo non più di dieci muniti), ma è un’esperienza che non si dimentica. Una miscela degli esperimenti cinematografici sulla lunga durata di Andy Warhol e l’indagine etnografica. L’idea è maturata all’interno della facoltà di comunicazione visuale di Harvard. La Spray ha avuto lunghi soggiorni in Nepal (ma ha interessi eccentrici: risulta che stia preparando un lavoro sugli anni hollywoodiani di Ronald Reagan: geniale), a lei si è poi unito Velez. Si sono divisi i compiti, in fase di ideazione e poi di realizzazione. Provvidenziale e decisivo l’intervento, nelle vesti di produttori, di Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel, i due autori di “Leviathan”, da molti considerato il miglior documentario del 2012. Senza dubbio anche questo “Manakamana” è notevolissimo. Il film più importante visto finora a Locarno.

E a proposito di racconto d’uomini immersi nel loro paesaggio, vale la pena segnalare un altro film di questa selezione festivaliera: “Costa da morte” del galiziano Lois Patino, incentrato su un’area considerata la fine del mondo in epoca romana, girato quasi tutto con campi lunghi, su grandi distese marine, spiagge battute dall’inverno, boschi dominati dalla nebbia. Visivamente davvero bello.

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