A Venezia arriva il sacro Gra: la vita intorno a Roma

Leone d'oro al film di Gianfranco Rosi

Potenza dell’ingegneria civile: fare del proprio nome un acronimo. Perché Gra oltre che Grande raccordo anulare è, in principio, la firma dell’ingegner Eugenio, Eugenio Gra. Primo presidente dell’Anas, fratello del minore e assai più dotato Giulio, progettista di mezzi Parioli. Eugenio ebbe la geniale e piuttosto freudiana idea di eternarsi nell’opera maggiore che gli toccò gestire. La più grande autostrada urbana italiana, un anello d’asfalto che circonda per settanta chilometri la Capitale: dentro è Roma, fuori è il resto del mondo. L’idea del margine metro-esistenziale è alla base di “Sacro Gra” del documentarista Gianfranco Rosi, ultimo e migliore film italiano in concorso. Lungo il Gra si intrecciano sette storie, o meglio spezzoni di storie che catalizzano altre storie ancora: il principe con la magione anni Sessanta a Boccea, lo studioso delle palme, le anziane puttane, un pescatore di anguille, l’infermiere del 118, l’anziano attore di fotoromanzi, la signora sola davanti alla tv.

Per tre anni Rosi si è messo in osservazione del Gra, ha intercettato le vicende dei suoi personaggi, registrando la strada e i suoi dintorni nei suoi impulsi, nei suoi incidenti, nei suoi ingorghi, nel suo correre, nelle corsie e nelle uscite, nella canicola e sotto la neve, dentro le notti e i giorni di chi la attraversa e di chi campa ai suoi bordi, ballando nel vortice circolare della sua vita. Non importa che differenza passa tra il documentario e il cinema di finzione, sostiene Rosi, la differenza che conta è tra ciò che è vero e ciò che è falso. E in questo “Sacro Gra” si respira un’aria di verità che diverte e stupisce, si avverte il respiro autentico della città al di là degli sterili languori neodannunziani della “grande bellezza” di Roma centro, al di là delle storie, romane e non romane ma sempre un po’ fittizie, che il nostro cinema troppo spesso ci offre. “Sacro Gra” ci connette con il Paese vero concentrandosi sulla periferia della sua Capitale, lavorando sul concetto di margine, che non è immediatamente e retoricamente sinonimo di degrado ma è piuttosto il mondo fuori campo, fuori fuoco, che ha una sua vitalità e una sua forza assolutamente da raccontare. Strepitoso montaggio di Jacopo Quadri.

Assai bello è “La jalousie” di Philippe Garrel. Come da titolo, è un film potentemente sentimentale su relazioni fedifraghe che si susseguono e rivoluzionano la vita dei loro protagonisti. Storia semplice girata velocemente come negli anni Sessanta facevano Godard o Rohmer, in un bianco e nero un po’ nostalgico e con bellissimi dialoghi che da soli valgono il biglietto. «Forse come tutti gli uomini lotto contro la mia misoginia», confessa Garrel, riferendosi al bellissimo personaggio della notevole Anna Mouglalis, una che dice: «Essere al verde va bene, ma esseri poveri è insopportabile», prima di sostituire l’amante, Louis Garrel, attore spiantato che per lei ha mollato la moglie e la figlia, e che a sua volta a una sua giovane preda illustra la “legge del deserto” fin troppo chiara: «Come nel deserto, devi dare ospitalità per tre giorni e tre notti, poi però devono andar via».

Ferocia senza cinismo, spietata dolcezza. La dimostrazione che con una solida sceneggiatura, un pugno di attori, alcuni accordi ben infilati al pianoforte e una Parigi per niente turistica si può fare un’opera memorabile. Forse il più bel film del concorso.

A tenere banco nelle discussioni sui film in gara è “Stray Dogs” del malese Tsai Ming Liang, Leone d’Oro nel 1994 con “Vive l’amour”: un altro che come il maestro giapponese Hayao Miyazaki ha deciso di congedarsi dal cinema concorrendo a (Com’è triste) Venezia 70. Al di là dell’aspetto piuttosto malinconico di questa orientale cerimonia degli addii, il giudizio sui film dovrebbe essere assai meno sentimentale e dunque: questo “Stray Dogs” è un film del tutto dimenticabile. C’è un lui che per mestiere regge a bordo strada manifesti pubblicitari immobiliari, si porta appresso due figli piuttosto derelitti costretti a vivere improvvisando. La moglie prima forse c’è, poi no, anzi c’è una donna, forse un fantasma forse un ricordo forse chissà che altro. Si finisce in due a piangere davanti ai muri. Poche idee ma confuse, discreto appeal presso la platea cinefila, si teme l’irreparabile in giuria. Ma a che servono film così? Forse a niente, perfino l’autore si è stufato di farne ancora. E l’età qui non c’entra nulla: Ming Liang è della leva registica della classe ’57. Niente scuse.

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