Che bello l’amarcord di Ettore Scola su Fellini

Mostra del Cinema di Venezia

“Che strano chiamarsi Federico”. Garcia Lorca diventa Fellini per il titolo di questo film che Ettore Scola dedica al genio di Rimini. Ma la cosa strana davvero – ha ragione Sergio Rubini, che al film partecipa – è che un maestro ricordi con tale amore un altro maestro perfino più grande “in un Paese come l’Italia che ha nel fratricidio la sua pratica più diffusa”. Vecchia amicizia intessuta di confidenze lungo i decenni, stima veneratoria verso una specie di fratello maggiore, e sconsiderato viscerale profondissimo amore per il cinema: tutto questo rende dolce e agile questa opera piccola e quasi familiare di uno dei capi della nostra commedia, una specie di gloria nazionale, se a salutarlo qui al Lido oggi è sbarcato perfino il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Che su Fellini e il film ha detto: “Mi sono emozionato, conoscevo Fellini, lo sono anche andato a salutare a Ferrara nella clinica in cui faceva la riabilitazione. Persone come lui non si inventano. Come nessun altro ha saputo coniugare la realtà e l’immaginario. Solo Scola poteva fare questo film, facendo rivivere le sue avventure insieme a lui. Fellini e Scola sono molto diversi fra loro come registi e come temperamenti, ma così straordinariamente vicini”.
 

 https://www.youtube.com/embed/IBN1lOnr32Y/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-IT 

Fellini e Scola certo sa di nostalgia, ma la retorica è bandita. Lo stesso regista in conferenza stampa avverte: «Esiterei a rimpiangere i bei tempi di una volta. Oggi i giovani hanno molte più opportunità, noi ce le sognavamo». Di gran sogni ne ha fatti, e dei migliori, quella vecchia gioventù degli anni Trenta e Quaranta. Fa impressione che un piccolo giornale di satira come il “Marc’Aurelio”, dove sia Fellini che poi Scola cominciarono come fumettisti e rubrichisti, abbia incubato e portato a maturazione il talento di grandiosi autori del nostro cinema: Ruggero Maccari (con cui Scola scriverà un mucchio di sceneggiature), Steno, Age e Scarpelli. Dopo la matita, per molti di quei ragazzi terribili venne il tempo della settima arte. Il primo a fare il salto fu proprio Fellini: inizialmente come sceneggiatore per Rossellini, poi autore in proprio baciato in breve dal successo planetario con tanto di Oscar (alla fine della carriera saranno ben cinque).

Scola ricorda tutto questo, utilizzando materiali d’archivio e ricostruendo in fiction situazioni vissute, ma soprattutto mette in campo la sua intimità col grande Federico, che ammazzava l’insonnia guidando per Roma di notte, che indagava la verità con le sue bugie da eterno Pinocchio, gran mentitore sincero che non si dava arie d’artista, dopotutto “mio padre mi voleva medico, mia madre invece cardinale”, e che del cinema è stato mago senza mai spocchia: “Non credo nella libertà totale della creazione. La libertà totale è pericolosa, è pura retorica romantica. Sapete perché faccio film? Perché firmo un contratto, prendo un anticipo che non mi va poi di restituire, e allora faccio il film”. Spassosissimi i provini recuperati da archivi privati che Fellini fece a Sordi, Tognazzi e Gassmann per il “Casanova”, provini del tutto inutili perché la produzione aveva già scelto Sutherland, ma Fellini non voleva rinunciare al divertimento di vederli in parte. Molto bello il ricordo di Mastroianni, attore feticcio sia di Fellini che di Scola, il nostro divo più grande ma, diceva il riminese, “con la faccia di uno qualunque”.

La giornata ci ha consegnato anche l’ultimo film del concorso, e la chiusura è stata notevole. “Es-stouh (Les Terrasses)” dell’algerino Merzak Allouache è il racconto corale e intrecciato di una serie di personaggi che su diverse terrazze di Algeri, in un giorno qualsiasi, vanno incontro a un destino violento. Le storie, scandite dalle cinque preghiere quotidiane che da prima dell’alba accompagnano i fedeli fino alla notte, ci vengono presentate nella diversità sociale dei vari personaggi: la famiglia abusiva devastata da droga e delusione, il pugile, i delinquenti, la troupe di un documentario, una band di musicisti, la donna sola che li ascolta, il padrone di casa arrogante, il guaritore picchiatore… Ogni storia si sviluppa lungo la sua tragica traiettoria accogliendo nuovi personaggi (da segnalare un memorabile ex poliziotto comunista col fascino di un Lino Ventura arabo), facendosi metafora del Paese attuale, segnato ancora dalle ferite della sua recente storia post-coloniale e dal mancato riscatto sociale. Durissimo, molto attento allo sviluppo dei molti personaggi, montato superbamente con una particolare attenzione alla componente sonora, “Es-stouh (Les Terrasses)” ha buonissime chance per un riconoscimento.

Va però detto che le previsioni sui premi mai come quest’anno sono avventate. I vecchi cronisti ricordano che nelle passate edizioni è capitato che la direzione artistica esercitasse una “moral suasion” per alcune scelte da compiere in senso patriottico; ma ogni consiglio sarebbe del tutto vano con un presidente di giuria forte e per certi versi autoritario come Bernardo Bertolucci. “Altro che giuria, chi deciderà il Leone d’Oro sarà lui e solo lui”, è il ritornello che si ripete in queste ore: è noto che Bertolucci, esattamente trent’anni fa, sempre da presidente della giuria impose il massimo riconoscimento, dopo una gita in Laguna piuttosto alcolica offerta ai giurati, al modesto “Prénom Carmen” di Jean-Luc Godard, suo mito artistico, con cui proprio in quella occasione riallacciò i rapporti interrottisi dopo che il francese era diventato maoista e l’italiano s’era invece ancor più legato al suo vecchio caro Pci (la rottura è spiegata nel bel documentario “Bertolucci on Bertolucci” di Luca Guadagnino e Walter Fasano, presentato proprio qui alla Mostra).

E dunque, cosa potrebbe piacere a Bertolucci? Per esempio, “La jalousie” di Philippe Garrel, film molto francese e assai bello. Non sfugge che Gianni Amelio, che concorre con “L’intrepido”, si è formato proprio sui set del maestro emiliano. Il quale ha più volte detto che gli piacerebbe sorprendere con i premi. Perché no allora “Tom è la ferme”, del 24enne Xavier Dolan, che peraltro è canadese e premiarlo suonerebbe come un segnale al concorrente e agguerrito festival di Toronto che si tiene proprio in questi giorni? C’è poi il beniamino dei festival internazionali, Tsai Ming Liang, con “Stray Dogs”, che potrebbe dire la sua. La stampa straniera parla con insistenza di “Under the skin” di Jonathan Glazer con Scarlett Johansson. La giuria è chiusa in conclave. Ancora un po’, e sapremo.

LEGGI ANCHE:

A Venezia arriva il sacro Gra: la vita intorno a Roma

Stupri, incesti, peni tagliati: benvenuti a Venezia

X