Oggi, 30 settembre, è uno dei non infrequenti giorni neri per i contribuenti. Sono infatti previsti, tra tutte le classi di contribuenti, ben 73 tipi diversi di versamenti, quindici dichiarazioni, 18 comunicazioni, 17 ravvedimenti e sette possibili istanze. Si trova tutto sul sito dell’Agenzia delle Entrate e si nota che la maggior parte degli adempimenti del 30 settembre non comportano pagamenti. Si tratta ad esempio di presentare le dichiarazioni Irap, Ires o Iva. Ma non si tratta di un gioco e chi ci legge lo sa benissimo. Così anche se non graveranno lunedì sui conti correnti, ciò non significa che il costo in termini di tempo e denaro nei mesi precedenti non sia stato elevatissimo. Ne hanno motivo in più di consapevolezza tutti coloro che hanno dovuto compilare gli studi di settore per arrivare in regola anche con questa scadenza di fine settembre. Affrontando o facendo affrontare a un professionista un lavoro di cui si parla troppo poco.
Sono così complicati che anche chi è costretto a subirli vorrebbe rimuoverne l’idea. Ma gli studi di settore continuano a esistere. Anzi, proliferano, trovando nutrimento nei meandri dello statalismo che ha pervaso tutti i gangli dell’Italia. La circolare 23 per il periodo di imposta 2012 ne prevede infatti ben 68 in più. Portando il numero complessivo dei questionari di là dalla stratosferica cifra di 250. Abbiamo letto paginate su molti quotidiano nazionali. Si è sprecato inchiostro nel definire i nuovi correttori di coerenza che sarebbero in grado di rendere gli studi più vicini alla realtà economica e più malleabili alla crisi che colpisce le piccole aziende o quelle individuali. In realtà la raccolta sistemica dei dati dei liberi professionisti e dei lavoratori autonomi negli ultimi tre anni ha visto così tante modifiche e aggiustamenti in termini di parametri di riferimento dall’aver deformato lo strumento statistico per una percentuale almeno superiore al 20 per cento.
E qui sorge il primo dubbio. Modifica e modifica, che cosa sono diventati oggi gli studi di settore? Ma soprattutto se un’analisi statistica ha bisogno di essere modificata così tanto può ancora essere definita tale? Sembra però che la questione non sia da porre in Italia. Perché ogni volta che qualcuno avanza perplessità, la risposta ufficiale è che si tratta di uno strumento utile a monitorare e che non obbligatoriamente impone interventi invasivi. Insomma, non serve a fissare il livello di imposte da pagare. Ma la realtà è ben diversa. Una volta che il contribuente ha compilato i questionari e li ha inviati all’Agenzia viene incasellato in un cluster di riferimento. Un’analisi discriminante associa l’azienda a una casella che corrisponde all’azienda tipo. A quel punto il contribuente deve risultare congruo e coerente con il modello virtuale. Se non lo è, può scegliere l’adeguamento spontaneo/spintaneo. Il contribuente ha la possibilità di inserire modifiche alla dichiarazione, portando l’importo dichiarato a coincidere con quello del ricavo puntuale stimato dagli uffici finanziari; pagando un 3% di penalità se la differenza supera il 10 per cento. Una scelta abbracciata da molti contribuenti perché evita la trafila successiva: contenzioso e quanto altro.
In realtà si tratta, eticamente parlando, di una porcata. Solo in Italia lo Stato ammette che il contribuente possa dichiarare due volte valori diversi. La verità dove sta? Evidentemente non importa, essa soccombe di fronte al gettito. Fin qui un problema vecchio. Già vissuto dalle partite Iva almeno a cominciare dal 2006.
La novità di quest’anno sta nel boom di domande cui il contribuente è sottoposto. E vale anche per gli ex minimi che si ritrovano a dover compilare gli studi di settore pur non avendo l’obbligo (per il primo anno) di congruità. I questionari entrano a tal punto nel dettaglio da immaginare una sorta di perversione fiscale da parte degli inventori. Tanto più che i commercialisti/associazioni/caf sono costretti a un doppio lavoro che viene a costare al contribuente molto più di quanto verrebbe la normale denuncia dei redditi. «La presunta raffinatezza dei modelli di stima, per funzionare richiede informazioni maniacalmente puntuali e dettagliate, che però nessuna disposizione amministrativa o contabile ha mai previsto», spiega Mario Pozza, presidente Confartigianato Treviso il cui ufficio studi ha steso un approfondimento dal titolo “Complicazioni necessarie o follia burocratica”. «Gran parte delle aziende sottoposte agli studi – continua – sono in contabilità semplificata e i commercialisti per compilare i moduli sono costretti a fare un lavoro extracontabile che costa al cliente anche tre volte tanto».
Senza scordare che spesso le istruzioni non facilitano il lavoro e lasciano aperti molti dubbi. Soprattutto relativi agli obiettivi di certi questionari. Con gli esempi ci si capisce meglio. Tra le novità di quest’anno una riguarda i barbieri e i parrucchieri. Lo studio VG34U al quadro Z richiede ulteriori informazioni e viene scisso in Z02 e Z03. Nel primo il contribuente deve inserire «il costo per acquisto di prodotti destinati alla vendita». Nel rigo Z03 deve riportare «il costo dei materiali di consumo utilizzati per la prestazione dei servizi». Si tratta sempre di shampoo. Ma lo Stato chiede di distinguere quello che viene venduto ai clienti e quello che viene usato per lavare loro i capelli. E per i prodotti destinati alla vendita bisogna specificare solo gli acquisti dell’anno e non il costo del venduto. Quella è un’altra partita, che va a intaccare le giacenze. Evidentemente l’Agenzia ritiene che il rigo Z02 e Z03 abbiano ricavi diversi. Sicuramente sarà così.
Ma chi mai tiene una contabilità del genere, visto che la legge non lo richiede? Risultato? Altra burocrazia e tempo perso. Anche ai taxisti viene domandato di distinguere i «ricavi derivanti da servizi a tariffe differenziate ai sensi dell’articolo 6 lettera e) della legge 4 agosto 2006» dai «ricavi derivanti da servizio taxi in convenzione». Che differenza c’è? Al momento non si sa. Nemmeno gli autisti pubblici, che hanno sostenuto un esame di abilitazione, lo sanno. Interpellata, l’Agenzia farà sapere. Nello studio VG69U al comparto dell’edilizia viene chiesto, oltre alle modalità di assunzione del lavoro e alla tipologia di attività, anche il «Luogo di svolgimento dell’attività». O meglio la Regione nella quale si è operato di più e – dentro la stessa Regione – in quale Comune si è lavorato maggiormente. Non solo. Bisogna anche localizzare l’attività: Comune nel quale si è lavorato di più in assoluto e se questo è al di fuori della Regione di residenza serve indicare in quale macro area (Nordovest, Nordest, Centro, Sud o Isole) sia.
Quante imprese suddividono a priori i ricavi su base territoriale? Forse nessuna. Dunque bisogna farlo a posteriori. E comunque nessun obbligo contabile lo prevederebbe. Sempre nel settore dell’edilizia il quadro D richiede di indicare le diverse specializzazioni: ben 21 differenti caselle. Ovvero al contribuente tocca indicare la percentuale di produzione separando le attività di demolizione di edifici e altre strutture (D71) da quelle di microdemolizione (D72) e dalla rimozione di strutture in amianto (D73). Tanto per fare un esempio.
Purtroppo sarebbe possibile andare avanti con altri esempi per migliaia di battute. E tutte porterebbero allo stesso paradosso che riguarda stavolta l’effetto dei calcoli. Le informazioni fornite dalla modulistica servono per verificare se il contribuente – stante una certa forma organizzativa, dimensione e costi – dichiari un volume di ricavi con essi astrattamente compatibile (la Congruità). Ma non solo. Le informazioni servono anche per valutare la congruità dei rapporti tra le grandezze economiche che caratterizzano l’impresa (la Coerenza). C’è però un problema. Se il contribuente disonesto intendesse adeguare i propri ricavi al livello richiesto dallo studio può farlo. Al contrario il contribuente non congruo, non potrà fare nulla per sanare la sua posizione. Così può accadere che un’azienda dichiari ricavi sufficienti ma al tempo stesso non coerenti. Per esempio, una società edile sottoposta allo studio VG50U dichiara 125mila euro di ricavi con poco più di 123mila euro di costi. I ricavi puntuali (quelli previsti dallo studio) sarebbero 159 mila ai fini della congruità ma per la coerenza sarebbero 173mila. Esattamente 1,4 volte i costi. E qui sta l’assurdità. Chi ha deciso il valore? Da dove viene fuori questo numero? La risposta va cercata nelle specifiche tecniche e metodologiche che ci spiegano come la redditività debba collocarsi entro una certa soglia che, a dispetto della sofisticata econometria con la quale è costruito lo studio di settore, viene determinata semplicemente mettendo in fila le medie di settore e scartando i valori più alti e più bassi. Praticamente a tavolino.
«A questo punto sarebbe stato meglio scrivere un bel decreto», aggiunge Pozza, «che stabilisce: art. 1 – I ricavi dei pittori edili devono essere non inferiori 1,4 i costi sostenuti. art. 2 – I committenti di queste prestazioni sono tenuti a corrispondere un prezzo non inferiore a 1,4 volte i costi sostenuti. art. 3 – L’inosservanza della disposizione comporta una sanzione, pari a 5.000 volte il minor prezzo applicato». Una provocazione che se diventasse realtà almeno eviterebbe ai contribuenti tutta la manfrina degli studi di settore.
Per legge si decide quanto deve guadagnare un elettricista, un pittore o un muratore. Senza più nascondere pretese statistiche dietro al manto degli studi di settore. Basati su un modello lineare e sulla tecnica dei minimi quadrati non sono certo idonei a cogliere un momento che si vorrebbe descrivere in termini di normalità economica ma che in effetti non è più. Andrebbero bene per un’economia di stampo stalinista fatta di piani quinquennali. «Almeno, imponendo i guadagni per decreto finiremmo di fingere di vivere in un Paese con il libero mercato. «Dove per di più si continua a non prendere in considerazione un fattore fondamentale. Per lo Stato non è concepibile che un imprenditore lavori in perdita per più esercizi. Per chi ha disegnato gli studi chi perde dovrebbe subito chiudere i battenti», conclude Pozza. «Significa non aver capito come è fatta l’Italia».